La valuta di Facebook è un passo in più verso le future sovranità: private, arbitrarie, trasnazionali, per nulla democratiche. E hanno già hanno miliardi di cittadini
Non sempre, nella storia, la sovranità ha coinciso con il territorio. Anzi, nei tempi antichi molti re erano definiti in base ai popoli che comandavano, non per i territori che controllavano. Vercingetorige era il re degli Arverni, non dell’Alvernia. Carlo Magno, secoli dopo, era il re dei Franchi, non della Francia. Il dominio sulla nazione si riferiva più a una tribù - o a una federazione di tribù - che a un perimetro geografico. Spesso, del resto, si trattava di popoli non stanziali, quindi la cosa era sensata.
Oggi il fenomeno delle onnipotenti corporation digitali che rendono subalterne le istituzioni territoriali ci sta riportando - in un’era che non a caso viene definita “neonomade” - a quel tipo di situazione: sovranità che non coincidono con un territorio. Ma non per questo sono meno stringenti, anzi.
Il caso di Facebook in questo senso è pionieristico. E la decisione di battere una sua moneta sovrana - quale di fatto è la libra appena lanciata da Mark Zuckerberg - rende ancora più evidente la forma iperstatuale che i mondi virtuali stanno assumendo. Nuovi Stati i cui cittadini si chiamano utenti ma sono comunque sottoposti - come in ogni Stato - a costituzioni, leggi, polizie e tribunali. Che cos’è la Pagina dei Princìpi di Facebook se non una Costituzione a tutti gli effetti, tanto nelle forme quanto nei contenuti? E che cosa sono se non leggi ordinarie di uno Stato “i termini e le normative” di Facebook che poi la stessa azienda fa rispettare con la sua polizia (i censori di contenuti, algoritmici o in carne e ossa) e i suoi tribunali (quelli a cui l’utente fa ricorso in caso di ban provvisorio o definitivo)?
In questo processo verso la trasformazione delle corporation digitali in super Stati, la nuova moneta è solo un ulteriore passaggio, per quanto fortissimo sia dal punto di vista concreto sia da quello simbolico: sì, è tornata la mitica “sovranità monetaria”, ma l’emissione avviene in uno Stato transnazionale che è di proprietà privata, con un potere assoluto, dove la democrazia non esiste né c’è alcuna divisione tra legislativo, esecutivo e giudiziario: chi fa le regole è anche chi le fa eseguire e chi poi giudica.
Sono passati dieci anni da quando il semiologo americano Peter Ludlow lanciò il primo allarme, con il suo breve saggio intitolato “Il nostro futuro nei mondi virtuali”. Scriveva Ludlow che «i mondi virtuali sono meno democratici delle nostre società reali e i gestori li amministrano come dittatori, senza rendere conto ai propri utenti-cittadini. Ne decidono il bello e il cattivo tempo e man mano che acquistano popolarità, vengono gestiti in modo sempre più autoritario». Da allora la coscienza critica nei confronti delle corporation digitali è cresciuta, certo, ma senza tuttavia scalfirne lo strapotere. Fino allo scenario di oggi, quello della moneta made in Facebook. Mentre la politica - invece di porre globalmente la megaquestione della democratizzazione dei nuovi immensi Stati sovranazionali - illude gli elettori brandendo l’impossibile ritorno a sovranità locali.