Guerre, terremoti, rivoluzioni, volti di paura e di speranza.  Bloc-notes in una mano, macchina fotografica nell’altra. Dal 12 luglio a Bologna una mostra raccoglie due decenni di lavoro di Roberto Di Caro, grande giornalista dell’Espresso

Baghdad, aprile 2003. Il palazzo di Saddam Hussein, in abbandono dopo l’arrivo degli americani

Attraversi dal Tajikistan il fiume Amu Darya alle tre di notte su un barcone senza fiancate trainato da un cavo d’acciaio e la prima cosa che vedi alle luci dell’alba dell’Afghanistan in guerra sono i resti delle colonne erette da Alessandro Magno incastonate in povere case contadine, il deserto di terra tutt’altro che piatto, il lento incedere di asini, vecchi, bambini, donne coperte dal burqa fra la teoria di pietre bianche messe lì a segnalare i campi minati, poi le famiglie di esuli che rientrano nelle loro case in tre o quattro a dorso di cammello, tutti i loro averi in un paio di sacchi. Il cielo è terso, i colori vivissimi, non c’è da noi una luce così.

Ecco, a distanza di uno o due decenni dai reportage per L’Espresso dalle guerre in Afghanistan e in Iraq, l’Iran degli ayatollah, la rivoluzione arancione in Ucraina o il terremoto di Haiti, ci sono immagini che, complici il contesto, i soggetti, la luce e la fortuna, ti restituiscono con precisione ciò che hai vissuto e provato in quegli istanti. E forse lo comunicano anche oggi: in mostra a Bologna dal 12 luglio all'Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna, a cura di Sandro Malossini, poi a ottobre ad Acqui Terme nell'ambito della rassegna e del premio Acqui Storia.

Con tutta la distaccata obiettività che da cronista devi mantenere rispetto ai fatti nei quali pure sei immerso, in questo mestiere ti trovi a condividere accadimenti unici, momenti di irrefrenabile gioia ed eccitazione collettiva seguiti da feroci delusioni: la Storia ti si dipana davanti nelle sue contraddizioni, nella sua sequela di speranze ed errori, talvolta nelle sue malefiche prese in giro, come capricci di un dio beffardo, altro che astuzia della ragione. Mentre ancora in periferia si spara, entri a Kunduz, ultima roccaforte talebana nel nord Afghanistan appena presa dai mujaheddin (è lunedì 26 novembre 2001 poco prima di mezzogiorno) e centinaia di persone ti vengono addosso in festa, ti raccontano delle infamie subite e di cosa faranno in futuro ora che sentono di averne di nuovo uno, i ragazzi ti portano per mano alla loro scuola che Al Qaeda aveva trasformato in base operativa, a terra mappe e granate abbandonate prima della fuga, per strada i morti ammazzati, i prigionieri talebani trascinati via.
Chamchamal, Iraq, aprile 2003. Comandanti dei peshmerga curdi al fronte preparano l’assalto a Kirkuk

Una città appena liberata! Esperienza di chiunque, per le generazioni passate, ignota alla mia e a tutti i nati a guerra finita. Quindici anni dopo, però, e un conflitto senza fine con altre decine di migliaia di morti, i talebani rioccupano Kunduz, sia pure solo per qualche settimana, la attaccano ancora nel febbraio scorso, con i colloqui ufficiali in Qatar rientrano nel gioco politico e in modo surrettizio nei gangli del potere: le forze della Coalizione internazionale ormai decise a lasciare il campo, le donne sono di nuovo in balìa di una regressione misogina e paranoica.

Nord Iraq, giovedì 10 aprile 2003: i peshmerga curdi si prendono Kirkuk, la loro storica capitale da dove Saddam li aveva cacciati con le armi e la sostituzione etnica. Qualche scontro, sei morti, meno che nei festeggiamenti a seguire. Già nel primo pomeriggio migliaia di persone cominciano ad arrivare da Suleimaniya, Arbil e dal resto del Kurdistan di fatto indipendente: civili, famiglie con figli e masserizie, profughi recenti e altri che non vedevano la loro città da dodici anni, su auto, taxi, vecchi camion, pullman. Intasano ogni via di accesso, salutati per l’intero tragitto da una folla festante con le dita a V per vittoria. Quella notte non dorme nessuno e finisci anche tu a ballare in piazza fin quasi all’alba. Ma nell’ottobre 2017 i tank dell’esercito iracheno, primo ministro al Abadi, attaccheranno i peshmerga curdi, li cacceranno da Kirkuk, si riprenderanno la città e i pozzi di petrolio, il migliore del Paese.
Haiti, gennaio 2010. Un terremoto devasta l’isola, i morti sono 220 mila

Esempi e racconti del genere ne potrei sciorinare a decine. Kiev, la rivoluzione arancione del 2004 in Ucraina, le trecce della pasionaria Yulia Timoshenko, in piazza giorno e notte un popolo che si scopre tale contro l’ex-padrone russo, Yushenko il banchiere che diventa presidente. Sei anni e torna Yanukovic il filorusso, in galera la Timoshenko, nuova rivolta nel 2014, Putin si annette la Crimea, il Donbass a est in guerra civile contro il potere centrale con le armi dei russi, c’è altro da aggiungere? È andata anche peggio in Iraq: Niniwe, Hatra, Nimrud, che fantastica esperienza girare tra quei tesori archeologici inestimabili, i templi dove stavano accampati i soldati americani di guardia, le statue del museo della civiltà assira a Mosul, la porta di Nergal, i bassorilievi del palazzo del re Sennacherib restaurati dagli italiani: oggi non c’è più nulla, l’Isis, il califfato islamico che nel 2014 fonda il suo stato criminale tra Iraq e Siria, distruggerà ogni cosa a picconate, ruspe e dinamite.

I segni e le ragioni della degenerazione erano fin da subito sotto gli occhi di chiunque osservasse senza preconcetti, e sono stati ampiamente stigmatizzati, all’epoca, anche sull’Espresso. Baghdad, tempo un paio di settimane dalla caduta di Saddam, era già un brulicare di traffici, business, pile alte due piani di antenne satellitari in vendita, i regimi passano e i dollari arrivano, si aprono gallerie d’arte, al teatro al Rashid parzialmente distrutto da una bomba, nell’aria il residuo puzzo di bruciato, giovani attori registi scrittori poeti mettono in scena Lautréamont, Camus e Henry Miller.
Teheran, giugno 2004. Donne in chador davanti alla vetrina di una oreficeria

Sei mesi e cento errori dopo (abolizione dell’esercito, chiusura della Borsa e nei fatti anche delle banche, totale incomprensione della estrema complessità di una società mediorientale, sottovalutazione delle fratture etniche e religiose) la normalità ritrovata è fatta di attentati, granate lanciate da auto in corsa, rapimenti a scopo di ricatto, contro l’hotel dove dormi un rpg puntuale ogni giorno alle 8 di mattina come fosse la sveglia del concierge, e l’ultimo marine cui saltano i nervi che spara contro chiunque sembri una minaccia, l’auto di Nicola Calipari del Sismi, ucciso mentre riporta a casa Giuliana Sgrena del manifesto appena liberata, o la tua e quella accanto, su quella stessa strada per l’aeroporto. L’attuale primo ministro dell’Iraq, Adel Abdul Mahdi, studi a Poitiers dove Carlomagno fermò l’Islam, lo intervistai nel marzo 2003 in Kurdistan in un campo militare dello Sciri, lo sciita e filoiraniano Consiglio supremo per la rivoluzione islamica in Iraq, di cui era il numero tre. Per il dopo Saddam una repubblica islamica sul modello iraniano?, gli chiesi. «Per il momento, la democrazia è il nostro obbiettivo finale». Per il momento? Finale? Rifeci la domanda, e lui: «Pour l’instant» etc.

Guerre giuste, guerre sbagliate, guerre inutili? Bernard-Henri Lévy, incontrato a Kabul nel febbraio 2002, mi rispose che un popolo in marcia verso la libertà come l’afghano poco o nulla avrebbe potuto fermarlo. Peccava di ottimismo. Un paio di mesi dopo, a Milano, al Giovedì, la “piccola area ludico-resistenziale” di Augusto Bianchi, l’ospite era Tiziano Terzani. Non c’eravamo incrociati in Afghanistan, lui stava a sud, io a nord. Lui disse che quella guerra era ingiustificata, io che la foto-simbolo dei bambini di nuovo a giocare con gli aquiloni era vera, a Kabul ne avevo visti ovunque e comprato uno stock intero, per loro e un paio per me. Lui dubitava fortemente che fosse un motivo sufficiente per una guerra, io non ne avrei potuto concepire uno migliore. Non so, non ci vado da un po’, quanti bambini giochino oggi con gli aquiloni in Afghanistan.
La locandina della mostra "Roberto Di Caro: taccuino per imagini" dal 12 luglio a Bologna

Quanto alle immagini, ve n’è una che in mostra non c’è. Beslan, Ossezia del nord, settembre 2004. Trecento morti, 186 bambini, dentro la scuola assaltata da terroristi islamici arrivati dalla Cecenia attraverso l’Inguscezia e attaccata dagli Speznaz russi per liberarli dopo tre giorni di prigionia senz’acqua né cibo. Il giorno dei funerali, i cortei funebri su carri di legno, furgoni, auto, camion s’incrociavano caoticamente nel fango sotto una pioggia fitta il cui scrosciare non riusciva a coprire i pianti. Non c’è perché non l’ho mai scattata, quella foto. Ma è l’immagine più dura e disperante di quegli anni che ho nella memoria.