Sono diventata afroitaliana di recente. Fino a pochi anni fa eravamo semplicemente alieni o, peggio, invisibili. La nostra pelle nera o marroncina non pervenuta.
Nessuno si era accorto che i migranti arrivati negli anni ’70 e anni ’80 avevano fatto dei figli e che quei figli riempivano le aule universitarie o erano alla ricerca di un lavoro. Poi cominciammo a essere, e fu già un progresso, generici “figli di migranti” o “seconde generazioni”.
I primi neri italiani di cui i media parlarono furono i ragazzi/e che si ritrovavano in piazza Mancini a Roma per ascoltare musica rap e imitare il passo strascicato degli eroi del momento, da Tupac Shakur ai Public Enemy. Erano di origine eritrea, somala, etiope: in mezzo ai figli di migranti ce n’era anche qualcuno col papà ambasciatore, che andava lì perché solo in quella piazza piena di autobus si respirava un po’ di spirito nero.
È curioso che tutto ciò avvenisse proprio a pochi metri dall’obelisco con la scritta “Mussolini Dux” al Foro italico. Come se quei ragazzi, con la loro presenza, volessero vendicarsi di quel fascismo che aveva inventato le leggi razziali e aveva fatto soffrire i loro nonni. Ma ancora non si era afroitaliani.
Il termine è di uso recente, anzi recentissimo. Io l’ho sentito pronunciare solo otto anni fa. Un calco tratto da quella realtà afroamericana a cui tutti i figli di migranti di origine africana hanno guardato almeno una volta. Gli afroamericani erano il modello a cui guardare. E poi era facile definirsi “afroitaliani”: meno parole da usare, meno spiegazioni da dare. Un termine comodo che riassumeva i viaggi dei genitori e tutta la realtà diasporica che c’era dietro la propria famiglia. Ora si sente spesso parlare di afroitaliani.
Lo scrittore Antonio Dikele DiStefano curerà per Netflix una serie proprio sui ragazzi afroitaliani. Ultimamente c’è anche chi dice però di non amare questa definizione. C’è chi rivendica un’italianità piena e non importa se si ha la pelle nera o a pois. La definizione di per sé non è né giusta né sbagliata. Segue semplicemente il destino di ogni etichetta. Qualcuno l’amerà. Qualcuno la detesterà. È così che va il mondo d’altronde.