Chi comanda in carcere: ecco come funziona la gerarchia tra i detenuti
Il potere dietro le sbarre dove sono rinchiusi i boss rispecchia quello che accade fuori. E i casi di Riina jr. e Carminati lo dimostrano
Se si vuol comprendere meglio com’è strutturata la mafia sul territorio occorre guardare dentro il carcere, analizzare i movimenti di chi sta nelle sezioni di alta sicurezza o in quelle riservate ai detenuti sottoposti al 41bis, guardare da vicino la vita carceraria e quali tipi di rapporti si creino tra detenuti. Questo esame sui boss reclusi può aiutare a capire come si muovono i mafiosi che sono fuori. I dettagli della vita carceraria illuminano, agli occhi degli investigatori, gerarchie e le alleanze che rispecchiano quelle che si organizzazano sul territorio.
Si parte dal primogenito di Salvatore Riina, Giovanni. 43 anni, in cella dal 1996 a scontare la condanna all’ergastolo per quattro omicidi compiuti a Corleone. È stato lui fino a poco tempo fa il mafioso di riferimento per tutti i detenuti sottoposti al 41bis nel carcere di Spoleto dove è rinchiuso dal 2008. Un riflesso condizionato dovuto al potere che aveva suo padre. E così, per “rispetto” del capo dei capi, è toccato al giovane Riina “aprire” il “saluto” del mattino con tutti i detenuti della sezione. Lo ha fatto dalla sua cella: urlando attraverso feritoie e canali d’aria il suono della voce raggiungeva tutti. Un modo per augurare il buon giorno e, dopo questo “benestare”, si apriva la giornata, mentre gli altri a turno, si mettevano in linea con la scala gerarchica. Un gesto simbolico ma chiaro per il popolo dei carcerati. Perché la mafia vive e si nutre di simboli e gesti.
Giovanni Riina è nato in clandestinità, durante la latitanza del padre, come i suoi tre fratelli. È stato partorito in una delle migliori cliniche di Palermo, è cresciuto nel lusso. L’ultima abitazione fino al 15 gennaio 1993, giorno dell’arresto del capo di Cosa nostra, è stata una sfarzosa villa in via Bernini alla periferia della città, con tanto di piscina e boiserie in quasi tutte le stanze, di proprietà della società Villa Antica di Giangiuseppe Montalbano, mai indagato per questi fatti.
La carriera di assassino di Giovanni inizia dopo la maggiore età. Ha 19 anni quando il 22 giugno 1995 strangola a mani nude un uomo, innocente, per «provare agli altri boss della cosca la freddezza e la capacità di sopprimere una vita umana». Questo omicidio è stato il battesimo del fuoco per il rampollo della famiglia, deciso dallo zio, Leoluca Bagarella, all’epoca latitante, e sconvolto per la morte della moglie, Vincenzina Marchese. Oggi è ancora ignoto se la donna si sia suicidata per colpa del marito o sia stata uccisa. Il suo corpo non è stato mai trovato.
Il primogenito di casa Riina ha partecipato ad altri tre delitti, sempre nel 1995, due uomini e una donna, vittime innocenti che non avevano nulla a che fare con la mafia.
Dopo dieci anni di “apertura del saluto”, il rampollo di casa Riina ha smesso dal giorno seguente alla morte del padre. Scomparso il capo dei capi, è scomparso anche lui dalla gerarchia carceraria. E questo fa comprendere come gli assetti dentro Cosa nostra sono immediatamente cambiati dal momento in cui è deceduto Salvatore Riina. Nel frattempo il carcere di Spoleto si è arricchito di nuovi arrivi, il primo è Leandro Greco, 29 anni, nipote di Michele Greco, il “papa” di Cosa nostra. Dal nonno ha ereditato il carisma mafioso, diventato presto, nonostante la giovane età, un boss della zona di Ciaculli a Palermo dove aveva grande influenza il “papa”. È nella stessa sezione di Riina jr. Il secondo arrivo è Giuseppe Sirchia, affiliato di spicco della famiglia mafiosa di Passo di Rigano, una delle più importanti del capoluogo siciliano. Entrambi potrebbero portare un nuovo assetto del potere mafioso in carcere, rispecchiando quello di fuori.
Nel carcere dell’Aquila il “saluto” lo aprono i mafiosi palermitani Gianni Nicchi, Ignazio Fontana e Andrea Adamo. Sono loro a gestire con il loro carisma criminale la vita carceraria dei mafiosi al 41 bis. Prima di loro la linea veniva data da un altro capomafia, Leonardo Vitale senior, adesso trasferito nel carcere di Sassari dove è molto complicato fare il “saluto” o dare la linea al popolo delle mafie che è rinchiuso li, perché questa struttura ultra moderna, realizzata appositamente per i 41bis, è un carcere “impermeabile”, cioè che blocca la comunicazione con l’esterno. E di questo i detenuti hanno timore, rispetto agli altri istituti dove i vecchi edifici hanno sempre qualche crepa in cui il mafioso riesce a infilarsi, sfuggendo al controllo.
A Sassari è rinchiuso Leoluca Bagarella e pure Massimo Carminati, il capo di mafia Capitale, in attesa della decisione della Cassazione in calendario a ottobre. Carminati, che nel frattempo ha cambiato squadra di legali, per preparare meglio la difesa, è rimasto impassibile alla notizia dell’omicidio di Fabrizio Piscitelli, detto Diabolik, avvenuto in un parco di Roma con modalità in pieno stile mafioso. Il cecato conosceva bene la vittima, e apprendendo la notizia non ha mosso un muscolo, non ha fatto alcun commento. È apparso così tranquillo come quando due giorni prima dell’agguato ha incontrato in carcere il figlio per il solito colloquio con i familiari. L’uccisione di Diabolik non è un fatto che si possa ignorare, perché il calibro della vittima e la sua importanza criminale modificano gli equilibri tra i clan romani. Se l’omicidio è stato concordato dai “re di Roma”, allora significa che è stata infranta la pax mafiosa che nel 2012 era stata imposta proprio da Carminati, per non attirare l’attenzione degli inquirenti sui propri affari. L’ordine era stato rispettato fino adesso.
Il controllo dei 41bis è affidato in carcere agli agenti del Gom (gruppo operativo mobile) della polizia penitenziaria, un gruppo non “speciale” ma specializzato, chiamato a operare su problemi specifici come la detenzione dei boss. Sono agenti poco noti al pubblico, di notevole competenza e capaci di lavorare con grande sacrificio. Ma il loro reparto è a rischio. Un decreto che di fatto lo avrebbe svuotato era sul tavolo del ministro della Giustizia Bonafede, al vaglio del suo capo di gabinetto, Fulvio Baldi e del capo Dap, Francesco Basentini. Nell’ultimo anno il regime di carcere “impermeabile” sta subendo una serie di criticità per l’applicazione di una circolare varata due anni fa che vuole rendere omogeneo in tutte le carceri il 41bis. Provvedimento impugnato dai detenuti che ha portato la magistratura di sorveglianza a renderlo difforme tra i vari istituti. La volontà di uniformare questo regime detentivo si è così dimostrata un tentativo poco lungimirante di disciplinare gli aspetti della vita dei mafiosi carcerati.
I detenuti fanno parte di un micro-sistema sociale capace di sviluppare una serie di regole non scritte, condivise da tutti e rivolte a tutti. Chi non le applica viene punito dal popolo carcerario, guidato sempre, nei reparti in cui si trovano i mafiosi, da un boss rispettato e riverito.
«Le “buone maniere” non riguardano soltanto il saluto» racconta chi è stato detenuto. «Per esempio, il sedersi a tavola ha una simbologia particolare che non ha niente a che fare con il bon ton, ma piuttosto con il potere del “capocella” che solitamente è una persona “di rispetto”. La disposizione dei posti a tavola è gerarchica: c’è il capotavola e al suo fianco le sue persone di fiducia, i suoi “ragazzi”; gli altri vengono disposti secondo un ordine dettato dal capo-tavola e sempre rispettato; le persone in fondo al tavolo sono le meno considerate. Addirittura, una tipologia di punizione può essere quella di far scalare un componente verso il basso, che è la parte opposta al posto principale. Di fronte, dal lato opposto della tavola non ci deve essere nessuno, in quanto, essendo disposta la tavola verticalmente al cancello d’ingresso - il “blindo” deve essere tassativamente accostato o chiuso - nessuno deve poter rivolgere le spalle a chi potrebbe presentarsi fuori dalla cella per qualsiasi motivo, agenti penitenziari compresi. E il capocella deve poter avere sempre la visuale libera».
Preparare la tavola, sedersi e, alla fine del pranzo, alzarsi. Tutto è un rito, con gesti, movimenti e linguaggio che sottolineano la supremazia di uno sugli altri. Una rappresentazione visiva del potere, della gerarchia, di chi comanda e di chi sono gli alleati.