
Leggi due romanzi che parlano del carcere, e quando arrivi alla fine ti accorg i che ti hanno lasciato addosso uno sconfinato senso di libertà. Sembra un paradosso, ma è solo uno de i miracoli di cui è capace la letteratura. Del resto, sono due libri magnifici. E questo devono fare, i libri belli: imprigionarti nel loro mondo, per poi portarti a respirare meglio, e un po’ di più.
“Almarina” di Valeria Parrella e “Mars Room” di Rachel Kushner (traduzione di Giovanna Granato), entrambi pubblicati da Einaudi, sono due romanzi molto diversi, anche se affrontano lo stesso problema. A cominciare dalla lingua. Valeria Parrella rende contemporanea una voce antica, da tragici greci, usa un italiano stratificato, che in ogni parola si misura con il tempo, sempre al confine con la poesia. Rachel Kushner invece sceglie una lingua da strada, da hard boiled, e la rende sofisticata, la porta a livelli altissimi di raffinatezza, lavorando di ambiguità e ironia.
Ma tutte e due le scrittrici capiscono che per dominare una materia violenta come la vita delle detenute – che siano del carcere minorile di Nisida, Napoli, o del penitenziario femminile di Stanville, California – la forma non può essere un secondino. Anzi. La prosa deve essere immaginifica, se vuole abbattere certi muri: deve correre fuori dai percorsi stabiliti, ribellarsi a divieti e orari, affacciarsi spavalda alle luci troppo forti per confondere chi osserva e raggiungere un punto cieco. Serve una prosa in fuga per raccontare tanta claustrofobia.
Romy è cresciuta nelle periferie di San Francisco, in compagnia di ragazzi che non avevano alternativa alla droga, per poi finire al Mars Room a fare la spogliarellista e la ballerina di lap dance. Entrambe sono colpevoli, eppure di un’innocenza struggente. Almarina, fuggita e trovata, finita in una comunità, «il reato migliore l’ha fatto quando ha rubato un telefonino». Romy Hall ha due ergastoli perché ha ucciso un cliente ossessionato da lei, che la perseguitava. Forse la giuria avrebbe capito quel gesto disperato, se non le fosse capitato un avvocato d’ufficio logorato dalla burocrazia e da tribunali che davanti agli ultimi si trasformano in macchine stanche e frettolose.
In comune hanno anche un’altra cosa: si fanno amare dal lettore. Romy attraverso il suo racconto picaresco, in prima persona, che si mescola a quello di altri personaggi (Rachel Kushner si cala nella feccia, assume tante voci di criminali, o di disperati), e Almarina attraverso lo sguardo della sua insegnante, Elisabetta Maiorano, la narratrice del romanzo di Valeria Parrella. Elisabetta è una donna di cinquant’anni, vedova, che dà lezioni di matematica ai ragazzi di Nisida e quando torna a casa non riesce a lasciarsi il carcere alle spalle («E se esci nell’ora della partita, uscire è più dolce. Basta non guardarli davvero quando si va, e tu devi andare per forza di legge, e loro devono restare per forza di legge. È, questa separazione, disumana»).
Un po’ come Gordon Hauser, l’insegnante del romanzo di Kushner, la cui vita è risucchiata dalle detenute. Anche lui non può fare a meno di pensare sempre a loro, a Romy in particolare, di cui si sta innamorando. Ma lei è «vietata», come quasi tutto in carcere. Vietato camminare scalzi. Vietato tenere le mani in tasca. Vietato urlare. Vietato ridere sguaiatamente. Vietato piagnucolare (Ridurre il pianto al minimo). Vietato tenersi per mano. Vietato abbracciarsi. Non c’è scritto, ma a Stanville è vietato amare. Anche a Nisida è vietato amare, o comunque è sconsigliato. Ma per Elisabetta è un colpo di fulmine, e non può farci niente.
«Voi che giudicate siete disposti a credere ai colpi di fulmine, ma altre forme d’amore improvviso vi mettono in sospetto», scrive Valeria Parrella. «Le amicizie sembrano maliziose, l’amore per i discepoli riverbera di paternalismo e l’ammirazione profonda per gli anziani pare sia coperta da chissà quale mancanza nascosta nel passato. Volete che l’amore proceda per gradi, vorreste intravederne un percorso lineare, guardare, morbosi, tutto. Invece no, non si guarda: il cuore è opalino e gli esami di coscienza sono per gli infelici. Io mi sono legata ad Almarina così, mentre guardavamo il mare, e le ho raccontato che mio marito era un magnifico nuotatore».
Rachel Kushner, con cupezza e con allegria, racconta i persi. I persi, non i perdenti, perché è gente che non ha mai immaginato di vincere. L’unico personaggio che si concede fantasie di riscatto, Betty, lo fa in modo megalomane – e sta nel braccio della morte.
Almarina e Romy hanno in comune il sentimento del presente, ma non il sentimento del domani. Qui sta il grande scarto. Romy Hall sa che da Stanville non uscirà mai («Lei ha due impegni a tempo indeterminato con lo Stato, Hall. Non va proprio da nessuna parte»). Romy è cresciuta fra gente spacciata in partenza, che non si poteva permettere il lusso di sognare un domani («Amavamo più la vita che il futuro»). E mentre viene circondata, dopo un tentativo di fuga, le tornano in mente i bagni nell’oceano, davanti a un cartello: zona a rischio annegamenti. «Non abbiamo mai avuto paura di annegare. La morte non era contemplata nel nostro futuro. Nessuno vive nel futuro. Il presente, il presente, il presente. Questo continua a essere la vita».
Almarina «sa che quello che non è presente alla vista non esiste più», ma ha «la luce del futuro negli occhi: e il futuro comincia adesso». E mentre lei e Elisabetta guardano il mare quel domani diventa patto, promessa, e loro «donne in divenire». E «da dentro il corpo di Almarina in vincoli» uscirà «Almarina libera». Ecco la vera, profonda, differenza: “Almarina” è una storia di speranza, storia d’amore con tutta la lucentezza del cambiamento a cui ogni amore porta, “Mars Room” è una storia di disamore, accumulato e continuo, come una condanna. Eppure anche in Kushner qualcosa si salva: l’amore per la vita in sé, nonostante tutto. Non splende come il mare intorno a Nisida. È più simile a una torcia in faccia, ma pur sempre una luce è.
Questi due romanzi, ciascuno per la sua via, ma con la stessa potenza di sguardo, di lingua e di umanità, riescono a «divellere quella spartenza iniziale a cui tanto abbiamo creduto: che si diventa professori, o condannati, o artisti, o giudici perché siamo diversi dentro. Mentre proprio lì dentro», per usare le parole di Parrella «siamo tutti uguali».