
Dodici mesi dopo il collasso del viadotto sul torrente Polcevera, che il 14 agosto 2018 ha ucciso quarantatré persone e costretto all’evacuazione di un intero quartiere, è doveroso chiederci se abbiamo imparato qualcosa. E soprattutto se le strutture di controllo del ministero, guidato da Danilo Toninelli, hanno corretto le procedure per tappare le falle che il collasso ha dimostrato. In corso ci sono i lavori urgenti di ricostruzione del ponte per una previsione di spesa di 202 milioni, che già viene considerata più del doppio superiore rispetto alla procedura ordinaria. Ed è un progetto che nasce già azzoppato: per non smentire il modellino offerto davanti alle tv dall’architetto genovese Renzo Piano e non potendo così adeguare l’infrastruttura che verrà alle norme sulla sicurezza del traffico, quando inaugureranno il nuovo viadotto autostradale saremo costretti a percorrerlo a 80 all’ora. Forse avremo più tempo per ammirarlo, oppure per meditare su quello che è successo e sta ancora succedendo. Ma nel frattempo lo Stato avrà speso una fortuna per un’opera obsoleta.
Non ci si poteva aspettare di più da un ministero travolto dallo scandalo che ha portato al licenziamento del sottosegretario leghista Armando Siri, indagato per una presunta tangente e per autoriciclaggio. E sicuramente non si deve pretendere che faccia tutto da solo l’altro sottosegretario 5stelle, Michele Dell’Orco, che nel suo cv istituzionale dichiara di essere il «sottosegretario più giovane della storia del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti»: come perito chimico, pur avendo lavorato «nelle aziende produttrici di malte e collanti per l’edilizia», ovviamente non può affrontare tutto ciò che il ministro Toninelli non riesce a seguire.
Così un po’ di confusione nel rispetto delle norme ora potrebbe addirittura invalidare le decisioni del Consiglio superiore dei Lavori pubblici, il massimo organo tecnico consultivo dello Stato che in primavera ha approvato, pur con qualche osservazione, i lavori per il nuovo ponte di Genova.
IL CASO CARLEA
Il 29 novembre scorso diventa presidente del Consiglio superiore l’ingegnere Donato Carlea. Anche se il decreto di nomina viene firmato dal capo dello Stato, la candidatura è ovviamente sostenuta dal ministero. Molti anzi lo leggono come il primo segno dell’atteso nuovo corso di Toninelli dopo le gaffe dell’estate. Pochi invece si accorgono che Carlea sarebbe fuori tempo massimo. Una segnalazione al capo di gabinetto del ministro, al direttore generale del personale e al ministero dell’Economia avverte che il nuovo presidente, che ha 66 anni e cinque mesi ed è in servizio dal 1981, con il calcolo del periodo di studi e del servizio militare maturerebbe almeno 44 anni di attività. Rispettando le norme obbligatorie che regolano il lavoro pubblico, dovrebbe insomma essere messo in pensione.
Non bastasse, il 28 gennaio di quest’anno il ministro per la Pubblica amministrazione, Giulia Bongiorno, assegna a Carlea anche l’incarico ad interim per la delicatissima direzione del Provveditorato per le opere pubbliche di Calabria e Sicilia. Come se tra le migliaia di tecnici del ministero, non ci fosse nessuno in grado di controllare i lavori nelle due regioni. La direzione del personale sta ora valutando cosa fare. L’ingegner Carlea ha un ottimo curriculum. Ma la decisione non è soltanto formale. Se il presidente è stato nominato per sbaglio contro i limiti previsti dalla legge, ogni suo atto potrebbe essere invalidato o quanto meno impugnato da chiunque, con ricadute su tutto il Consiglio superiore. Ma soprattutto sui tempi di realizzazione e alla lunga sulla sicurezza delle opere. Una situazione che fornirebbe spunti alle imprese private per ricorsi senza fine.
LE DIVISIONI DECAPITATE
L’altro ufficio ministeriale finito sotto inchiesta dopo il crollo del ponte Morandi, insieme con il provveditorato per le opere pubbliche di Genova e con i vertici della società Autostrade per l’Italia, è la Direzione generale per la vigilanza sulle concessionarie autostradali, che ha sede a Roma. Il direttore di allora, laureato in scienze politiche, è stato sostituito. Da aprile il nuovo capo è Felice Morisco. Come il suo predecessore, non ha competenze ingegneristiche ma amministrative e una laurea in economia e commercio. Delle sette divisioni dell’importante struttura di controllo sulle concessionarie, quattro sono oggi senza dirigente. Dal sito del ministero risulta “incarico non assegnato” agli uffici “Vigilanza tecnica e operativa della rete autostradale in concessione”, “Qualità del servizio autostradale”, “Analisi investimenti” e “Analisi economico finanziarie”. Per il nuovo ponte di Genova il premier Giuseppe Conte e il suo governo hanno deciso un percorso commissariale che, per molte decisioni, scavalca il ministero. Ma centinaia di altri interventi per legge devono fare riferimento alla struttura di Morisco e alle sue divisioni decapitate. Compresa l’imminente ristrutturazione di un altro ponte Morandi quasi gemello di quello crollato a Genova. Opera che, secondo quanto dichiarato da indagini affidate all’Università di Potenza e pubblicate nel 2015, è comunque in migliori condizioni di salute: il viadotto Carpineto 1 in Basilicata, lungo il raccordo autostradale Potenza-Sicignano gestito dall’Anas. Anche qui il calo di tensione nei cavi ha aperto microfessurazioni negli stralli di cemento con il rischio di infiltrazioni di acqua e la conseguente corrosione dell’acciaio invisibile dall’esterno. Il raccordo è comunque aperto con limitazione della velocità e, in alcuni tratti, delle corsie di marcia. Precauzioni per ridurre carichi e fatica delle strutture che per il viadotto crollato, stando alle indagini del procuratore di Genova, Francesco Cozzi, né società Autostrade, né il ministero avevano deciso.
SE ATLANTIA CHIEDE 20 MILIARDI
Se il governo sopravviverà e il vicepremier Luigi Di Maio porterà a termine la sua promessa di revocare la concessione alla società di gestione del ponte Morandi e di buona parte della rete autostradale italiana, la firma del provvedimento non toccherà al ministro. Un comitato di cinque esperti, scelti da vari uffici dello Stato, suggerisce che il provvedimento sia firmato dal capo della Direzione generale per la vigilanza sulle concessionarie autostradali. Anche questa indagine giuridica è partita con un incidente formale: tra gli esperti il ministro Toninelli aveva nominato un professore di diritto che era stato consulente di società Autostrade. Bastava leggere il frontespizio del suo curriculum pubblicato su Internet. Perso un mese per la sua sostituzione, il comitato ha consegnato il suo parere il 28 giugno.
Il ministri 5Stelle hanno dato ampio risalto ai dieci capitoli delle 62 pagine che illustrano quali strumenti giuridici sosterrebbero l’indirizzo politico di Di Maio-Toninelli di revocare la concessione prima della conclusione delle indagini penali e dei conseguenti processi civili. I cittadini-contribuenti, però, farebbero bene a leggere anche il capitolo 11 “Analisi dei rischi di contenzioso e delle ricadute operative della risoluzione” (il documento è sul sito del ministero alla voce “Il parere dei giuristi sulla concessione Aspi”). Gli esperti di Toninelli, infatti, in sette pagine di spiegazione, non escludono «possibili rischi per il concedente e quindi per lo Stato di trovarsi ad affrontare contenziosi di importi particolarmente rilevanti». Il possibile indennizzo per società Autostrade per la revoca della concessione in anticipo sulla sua scadenza del 2038 viene calcolato da varie fonti economiche tra i 20 e i 25 miliardi, cioè tra l’1 e l’1,2 per cento del prodotto interno lordo italiano.
Di Maio e Toninelli sono sicuri di avere ragione. La spesa eventualmente peserà sulle generazioni future. E, in parte come successivo risarcimento da parte della Corte dei conti, potrebbe ricadere sul direttore generale della vigilanza sulle concessioni autostradali che, per questo, potrebbe rifiutarsi di firmare il provvedimento prima di qualunque decisione della magistratura. «Un ulteriore tema di contenzioso», avvertono gli esperti, «potrebbe essere rappresentato dalla valutazione della gravità degli inadempimenti, un’area in cui è maggiormente incidente la discrezionalità del giudice». Con la conseguenza che la società di gestione conservi la concessione e chieda allo Stato l’ulteriore risarcimento dei danni subiti. La Procura genovese competente, non va sottovalutato, è la stessa che ha stabilito in circa ottant’anni il periodo per la restituzione dei quarantanove milioni sottratti dalla Lega allo Stato. Per un reato colposo e non doloso come il crollo del ponte Morandi, i magistrati genovesi potrebbero essere ancor più “garantisti”.
Dai video diffusi e dalle perizie finora depositate non è chiaro cosa abbia innescato il crollo: gli indagati e in particolare i tecnici di società Autostrade hanno tuttora margini di difesa per appellarsi a vizi occulti del progetto e della costruzione del viadotto, indipendenti dalla qualità (comunque apparsa lacunosa) della manutenzione. Sarebbe più prudente per il ministro attendere la conclusione dell’inchiesta penale. Sempre che la durata di questo governo sia superiore a quella delle indagini.
«Particolare rilevanza è stata data al rispetto del progetto architettonico redatto dallo studio Renzo Piano Building Workshop», scrivono i progettisti di Italferr nella relazione generale sul nuovo viadotto, «che prevede un andamento rettilineo ed orizzontale per il ponte. Tuttavia... non è stato possibile individuare una soluzione che riesca a rispettare allo tempo entrambi i requisiti e cioè i vincoli esterni e la richiamata normativa». Insomma, per non correggere il progetto di Piano, tutti a 80 all’ora. Il problema sono le curve troppo strette dei raccordi per i loro raggi fuori norma. Genova continuerà così a subire i gas delle code interminabili del ponte Morandi. Tanto che, dopo aver speso oltre 200 milioni, servirà una nuova opera. Lo dice già il progetto di Italferr: «Nell’ottica di una futura evoluzione dell’infrastruttura verso un servizio più prettamente urbano, cui il tratto dell’autostrada in questione probabilmente sarà destinato con la prossima realizzazione della Gronda». Ma il ministro Toninelli non l’aveva bocciata?