I gioielli De Grisogono. I telefoni Unitel. Gas e petrolio con l’Eni. E poi tv, supermercati, ville e appalti pubblici. Un’inchiesta giornalistica internazionale svela i tesori di Isabel Dos Santos, figlia dell’ex ras dello stato africano

Isabel dos Santos e il marito Donors Sindika Dokolo

I turisti in bermuda s’avvicinano con deferenza alle luccicanti vetrine di Porto Cervo. Si stringono nelle spalle, smorzano le parole e sgranano gli occhi di fronte a una borsetta in pelle di coccodrillo da cinquemila euro, a un orologio da 130 mila. Non vola una mosca, nel più suggestivo angolo del borgo marino: i vacanzieri di terra sembrano aver timore di turbare, con il proprio vociare, lo shopping celestiale dei ricchi. I budelli di Porto Cervo, quasi irreali nella loro perfetta pulizia, confluiscono tutti nella piazzetta delle Due Chiacchiere, un anfiteatro di bar e locali di lusso che s’affaccia sul porticciolo d’attracco dei super yacht da nababbi. Il quadro è un gigantesco schiaffo alla povertà.

Doppio schiaffo, se si volge lo sguardo verso il negozio più scintillante. È la gioielleria De Grisogono. Sulla soglia, una guardia armata tiene lontani curiosi e malintenzionati; all’ingresso, una teca illuminata fa brillare un collare tempestato di diamanti neri, viola, verdi, sfarzosi all’eccesso. Dalle pareti blu e dal salotto nero emergono, come sospesi nel nulla, altri sfavillanti gioielli, sfacciati nella loro imponenza. Tre commesse giovani e belle s’annoiano: è un negozio per pochi, quello. I clienti vip attraccano al porto, inforcano gli occhiali da sole e puntano dritti sul santuario dei diamanti.
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Ad attenderli c’è l’abbraccio del fondatore, Fawaz Gruosi, da oltre quarant’anni cerimoniere di feste esclusive, uomo-simbolo della Costa Smeralda: «Benvenuti nella terra d’esilio, divenuta rifugio di ricchi e famosi», è il suo messaggio di saluto. Fawaz è cittadino italo-svizzero, anche se è nato in Siria, l’otto agosto del 1952. La sua data di nascita è nota a tutti gli invitati alle memorabili feste di compleanno che il gioielliere organizza puntuale, ogni 12 mesi, in locali come il Billionaire dell’amico Flavio Briatore o l’hotel Cala Volpe, teatro di party con 500 ospiti, fuochi d’artificio e cantanti internazionali. Un miracolo economico che si è dissolto con un cambio di regime in un lontano paese africano. E con una tempesta di accuse: il conto della bella vita di Fawaz, e soprattutto gli immensi tesori dei suoi patron e partner d’affari, infatti, sarebbero stati pagati dalle casse pubbliche dell’Angola, dove un terzo della popolazione deve sopravvivere con un euro e mezzo al giorno.
Fawaz Gruosi

Ancora l’estate scorsa Fawaz, anche se dal 2019 ha lasciato qualsiasi carica nell’azienda di gioielli, è tornato nella sua villa di Stintino e nella piazzetta di Porto Cervo, con la figlia Violetta e qualche amico fidato. Il suo cliente più misterioso è tuttora protetto da un nome in codice: «Mister B». Fawaz chiamava così un personaggio che «spendeva tutte le estati da 40 a 80 mila euro, poi è salito a 3-4 milioni e nel 2017 è arrivato a otto».

Peccato che i rendiconti interni del gruppo De Grisogono, che ha la casa madre in Svizzera, descrivano Mister B, già dal 2015, come un pessimo pagatore, che ha saldato solo un terzo dei suoi debiti. Lo stesso Fawaz, secondo i bilanci aziendali, caricava alla voce “spese di marketing” i costi della sua casa in Sardegna, della barca, delle feste, arrivando a pesare per più di due milioni all’anno sulle casse della società. Oltre a chiedere ricchi prestiti personali, sempre approvati dai vertici del gruppo. Forse perché, come spiegano oggi gli atti d’accusa, a pagare il conto era lo Stato dell’Angola.

Il cordone segreto che legava i padroni dei diamanti alla misera nazione africana è stato spezzato solo in queste settimane. Il 23 dicembre scorso il tribunale della capitale, Luanda, ha ordinato il sequestro dei conti bancari e degli attivi di tutte le società conosciute di Isabel Dos Santos, la figlia maggiore dell’ex presidente rimasto al potere per 38 anni. I giudici hanno bloccato anche i beni del marito, Sindika Dokolo, e del loro tesoriere, il manager portoghese Mario Leite Da Silva. Il padre di Isabel, José Eduardo Dos Santos, ha dominato l’Angola dal 1979 al 2017, tra crescenti accuse di dittatura e corruzione. Il marito Sindika, figlio del banchiere Augustin Dokolo, è un uomo d’affari d’origine congolese ed è un famoso collezionista d’arte. I giudici ora accusano la coppia di aver sottratto alle casse statali «almeno un miliardo di dollari». Tramite decine di società private finanziate con fiumi di soldi pubblici. O beneficiate da licenze firmate dal papà presidente.
La città di Luanda

In Italia Fawaz si dichiara all’oscuro di queste immense ruberie: «Mi sono limitato a vendere De Grisogono a Isabel e Sindika perché hanno fatto l’offerta migliore», è la sua risposta. «Non ho mai avuto idea che i soldi provenissero dallo Stato angolano». L’ex colonia portoghese è diventata indipendente, dopo dodici anni di conflitto armato, nel 1975, quando è iniziata la guerra civile tra due forze rivali, Mpla e Unita, appoggiate da potenze straniere, che è finita solo nel 2002. La nazione è ricca di petrolio, gas, oro e diamanti, ma queste fortune sono concentrate nelle mani di pochi privilegiati.

Dopo la caduta di Dos Santos, alla fine del 2017 il nuovo presidente, João Lourenço, ha lanciato una campagna contro la corruzione creando un’apposita agenzia statale. Negli stessi mesi l’organizzazione indipendente Platform to protect whistleblowers in Africa, nata per proteggere chi denuncia reati, ha ottenuto una montagna di carte sull’impero di Isabel e Sindika: 715 mila documenti riservati, analizzati dal Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi (Icij), lo stesso network dei Panama Papers, LuxLeaks e Implant Files, rappresentato in Italia da L’Espresso. Più di 120 giornalisti di 37 testate di tutto il mondo hanno lavorato per sei mesi, insieme, sulle società ufficiali e sulle offshore segrete dei Dos Santos. Il maxi-sequestro giudiziario di fine anno riguarda solo la parte dichiarata delle ricchezze, molto più ampie, scoperte dall’inchiesta giornalistica, denominata Luanda Leaks, sui segreti di una delle donne più ricche del mondo.

Isabel Dos Santos, 46 anni, nata in Azerbaijan da madre russa, cresciuta a Londra dove si è laureata, è tornata in Angola alla fine degli anni ’90. Mentre il padre era presidente, ha fondato la compagnia telefonica Unitel, catene di supermercati, aziende televisive ed è diventata socia e manager di banche, imprese di costruzioni e colossi petroliferi tra Angola e Portogallo. Attentissima al suo profilo pubblico, ha usato i media e Internet per presentarsi come «una donna che si è fatta da sola», «una vera imprenditrice» e grande benefattrice, che ha creato «migliaia di posti di lavoro». Dice di sostenere «il capitalismo sociale» e giura che «i soldi non danno la felicità». Nel 2016 ha parlato di innovazione al forum di Cernobbio in qualità di «leader del futuro».

Come costruire un impero



Finora la rivista economica Forbes le attribuiva una fortuna di 2,2 miliardi di dollari. Secondo i dati dell’inchiesta Luanda Leaks, però, i tesori accumulati da Isabel e dal marito, comprese le casseforti offshore mai dichiarate, valgono molto di più: un dossier di un’agenzia investigativa li quantifica addirittura in 12,7 miliardi. Di certo la coppia possiede una rete di oltre 400 società e consociate, ufficiali e non, sparse in 41 paesi del mondo. In Angola, dove il reddito pro capite è di 250 euro lordi al mese, Isabel è chiamata «la principessa». Un titolo adeguato al tenore di vita: nel 2015 la «signora ingegnera», ad esempio, liquida una fattura da 431.935 euro a Dolce&Gabbana per una sua società. L’elenco degli ordini è dettagliato e comprende 5 magliette da 202 euro l’una; tre giacchini da 1.890; 37 mila euro per Moschino e per altre case di moda italiane, da Roberto Cavalli (47 mila) a Etro (28 mila). Isabel ha proprietà immobiliari in mezzo mondo: solo a Montecarlo, con il marito, ha un appartamento di 700 metri quadrati, pagato 53 milioni di euro.Sindika Dokolo, di nazionalità danese e congolese, predilige l’arte contemporanea: ha creato una fondazione intitolata a se stesso e ha pure presentato la sua collezione al padiglione africano della Biennale di Venezia del 2007. La sua galleria, solo a Luanda, comprende più di cinquemila opere.
Piattaforma petrolifera al largo dell'Angola

Dopo settimane di silenzio, Isabel Dos Santos ha risposto pochi giorni fa alle domande della Bbc, partner del consorzio, per respingere le accuse e contestare il sequestro dei beni, definendolo «un attacco politico, una caccia alle streghe». Nel merito, ha negato di possedere il colosso dei gioielli De Grisogono, senza però smentire che appartenga al marito. I Luanda Leaks confermano che dal 2012 la casa madre svizzera è controllata da una holding lussemburghese, che a sua volta fa capo a una società di Malta, Victoria Holding Limited. Questa appartiene per metà a una capogruppo svizzera, Exem Holding, che risulta intestata proprio a Sindika Dokolo. L’altra metà è della società Sodiam, posseduta dall’impresa statale Endiama, che controlla le miniere di diamanti dell’Angola.

Secondo le carte societarie, gli incassi di De Grisogono sono stati azzerati da spese folli in alberghi di lusso e feste esclusive, da Cannes a Porto Cervo, autorizzate dai consiglieri personali della coppia. Il gruppo ha chiuso per anni i bilanci in perdita, indebitandosi soprattutto con la banca Bic, di cui Isabel è socia. Mentre lo Stato angolano non avrebbe guadagnato nulla dai gioielli, anzi ci avrebbe perso: secondo atti interni del ministero del Tesoro, la Sodiam già nel 2013 aveva investito oltre 50 milioni di dollari nell’operazione De Grisogono, ma non avrebbe mai incassato utili. Anzi, la società statale avrebbe addirittura prestato soldi a Sindika per fargli acquistare la sua quota privata.

A collegare l’Angola all’Italia, oltre ai gioielli e alle miniere di diamanti, sono i giacimenti di gas e petrolio, che forniscono il 90 per cento del totale delle esportazioni. Qui non poteva mancare l’Eni. Il colosso petrolifero italiano, presente in Angola fin dal 1980, ha acquistato per 964 milioni di euro, nel 2000, un terzo della Galp, una società portoghese con forti interessi nell’ex colonia. L’Eni l’ha gestita per anni insieme al gruppo Amorim, fondato da un magnate portoghese. Il 45 per cento di Amorim Energia, però, fa capo a una società olandese, Esperaza Holding. Che appartiene ad altri: il 60 per cento è della Sonangol, la società petrolifera statale angolana; il restante 40 della Exem Holding. Proprio la cassaforte di Sindika. Che risulta legata da prestiti incrociati con le società personali di sua moglie Isabel, come la Vidatel, un’offshore delle Isole Vergini Britanniche. Lei e il marito sono registrati insieme anche come beneficiari di conti bancari della Exem. Fonti dell’Eni hanno chiarito all’Espresso che il gruppo italiano, tra il 20 luglio 2012 e il 20 novembre 2015, ha venduto in più riprese tutte le sue partecipazioni in Galp, incassando in totale 3 miliardi e 283 milioni. I documenti interni mostrano che l’attuale vertice dell’Eni, dopo la nomina di Descalzi nel 2014, ha accelerato l’uscita totale da Galp per contrasti con altri soci, che proponevano investimenti miliardari in Brasile. Alla domanda più spinosa – a chi appartiene Exem Holding? - le fonti aziendali rispondono così: «Francamente non lo sappiamo».

L’Eni peraltro risulta tuttora socia, con il 10 per cento, di un impianto angolano di gas liquefatto, chiamato Sonangol Lng Project, perché il primo azionista con il 40 per cento è l’omonimo gruppo statale di Luanda. E tra gli altri soci spicca, con un altro 10 per cento, l’azienda olandese Exem Oil & Gas, interamente controllata dalla solita Exem svizzera del marito di Isabel.

La principessa, sul colosso italiano, si è limitata a dire che «tra i miei più grandi successi ci sono state le negoziazioni con la Total e con l’Eni di Descalzi»: parole che non si riferiscono però ai suoi affari privati, ma ai diciotto mesi, tra il 2016 e 2017, in cui Isabel Dos Santos era diventata l’amministratore delegato della Sonangol. Insediata con decreto firmato dall’allora presidente: una nomina di papà.
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Nell’intervista chiesta dal consorzio Icij, Isabel Dos Santos respinge ogni accusa di nepotismo e corruzione: «Sono solo un’imprenditrice, non ho mai fatto politica, il sequestro è un attacco orchestrato dall’attuale governo ed è totalmente infondato». La signora ammette di aver fondato la compagnia telefonica Unitel, che le ha fatto incassare profitti per almeno due miliardi, grazie a una licenza firmata dal padre, senza gara pubblica, e si difende così: «Era un atto del governo, che per legge andava siglato dal presidente. E la prima licenza statale era andata a un’altra società».

Sulla sua passione per i paradisi fiscali, ora comprovata dagli atti di decine di società non ufficiali collocate nei più rinomati centri offshore, da Dubai alle Isole Vergini, Isabel Dos Santos risponde indirettamente: «Ho lavorato per più di vent’anni e ho pagato oltre 200 milioni di dollari di tasse in Angola e altri 50 milioni in Portogallo, quindi sono una grandissima contribuente». Ovviamente si riferisce a tutte le sue attività dichiarate, che comprendono anche la grande catena di supermercati Candando e il gruppo televisivo Zap. «La gente non va in questo o quel negozio, non guarda questo o quel programma per motivi politici», spiega: «È il mercato ad aver premiato le mie imprese».

Tra i suoi affari rientrano però anche colossali appalti pubblici, come un maxi-progetto immobiliare a Luanda: una città-satellite in cantiere tra la capitale e l’aeroporto. Isabel non nega che lo Stato angolano, quando il padre era presidente, avesse stanziato 600 milioni di dollari per quel piano edilizio, ma sostiene che «si tratta di un normale investimento immobiliare che coinvolge anche società olandesi». Il tutto è stato bloccato dal nuovo presidente Lourenço con accuse di corruzione «inventate per vendetta», assicura la principessa.
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20/1/2020

I giornalisti di Luanda Leaks hanno anche scoperto che la società statale Sonangol, nel 2017, ha pagato almeno 57 milioni di dollari a una ditta di consulenza di Dubai, che oggi risulta controllata dai suoi tesorieri. Un contratto firmato da Isabel in persona, poco prima di doversi dimettere. L’ultimo colpo prima dell’addio? «No», è la sua risposta: «Era solo la continuazione del piano di ristrutturazione aziendale che avevo avviato come amministratrice di Sonangol». E così altri soldi pubblici sono spariti a Dubai.