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Cultura
gennaio, 2020

Enrico Rava: «L'Italia è in mano agli incapaci. Per fortuna ci sono i musicisti»

Il jazzista Enrico Rava
Il jazzista Enrico Rava

L’amore assoluto per Miles Davis. I ricordi americani. Lo sguardo sul Paese di oggi. Arrivato a 80 anni il grande jazzista riflette sul talento, la fortuna, il futuro

Il jazzista Enrico Rava
Suonare sempre come se fosse l’ultima volta.Gliel’hanno insegnato in America negli anni delle avanguardie, lo insegna oggi ai giovani dai quali ama essere circondato. Enrico Rava è un ragazzino di ottant’anni con lo stesso gusto di scovare linguaggi di quando, ventenne, Gato Barbieri lo volle a suonare con sé.

Dalla Grande Mela percorsa dalle contestazioni all’Italia di oggi («mi spaventa, non so se ne usciremo»), il trombettista torinese ripercorre, attraverso i protagonisti del jazz, una vita tra palchi e impegno al servizio della musica, dando una sua ricostruzione originale sulla diffusione di questo genere in Italia, che parte da un concerto di Santana e finisce in un ufficio del Partito Comunista.

Quando arriva al Teatro Moderno di Grosseto trascinando il suo trolley col flicorno, il gruppo di Cocco Cantini che lo accompagnerà ripassa da tempo il repertorio; lui, come sempre, ha una sola urgenza: provare, costruire insieme la musica, trovare il suono giusto. Con naturalezza cambia i brani all’ultimo, li smonta e rimonta come fossero pezzetti di lego. Alla fine, a sorpresa, proporrà una rilettura di vecchi standard, con il suo linguaggio sospeso tra tradizione e innovazione.

Le piace suonare brani della tradizione swing e jazz. Cosa hanno da raccontare ancora oggi?
«Sono pezzi meravigliosi. Continuano a fornire un punto di partenza dal quale ognuno può sviluppare il proprio linguaggio; è grande musica del Novecento e vengano eseguiti oggi per lo stesso motivo per cui si esegue Bach. La loro forza è nella “suonabilità”: giri armonici spingono a creare idee nuove».

Un patrimonio americano …
«Non solo. In Italia basti pensare alla produzione di Giovanni D’Anzi, che tra gli anni ’40 e ’50 ha scritto canzoni splendide, perfette per l’improvvisazione. Non vale per tutta la musica, anche se di qualità: Lucio Battisti, per dire, ha scritto brani strepitosi, ma che quasi mai suonano “jazz”. Quando con Bollani facemmo un lavoro su di lui, gran parte del tempo se ne andò proprio nella ricerca dei pochi pezzi con progressioni adatte».

Jazz Wise ha inserito il suo album, “Roma”, con Joe Lovano, tra i venti migliori album del 2019, in compagnia di Chick Corea, Bill Frisell e altri colossi. Secondo lei cosa è piaciuto di più?
«Non ne ho la minima idea (ride: Ndr)! Però una bella soddisfazione. Posso dire che l’idea iniziale era di un album in studio, poi, riascoltando il nastro di quel concerto all’Auditorium Parco della Musica, sono tornate fuori le emozioni di una serata speciale con il pubblico; quando si arriva alle standing ovation vuol dire che è successo qualcosa. Forse quell’energia filtra anche nell’album».

Tra l’altro lei e Joe Lovano avete un approccio al suono piuttosto differente.
«Vero, ma abbiamo in comune il rispetto delle radici, che proiettiamo verso il futuro. Lui ha un passato importante nel gruppo di Paul Motian, io ho un passato nel free con Steve Lacy e Cecil Taylor. Ma sono linguaggi che affondano nella tradizione, che io adoro. Non passa un mese senza che ascolti Louis Armstrong, Miles Davis o Chet Baker».

Visto che spesso associano il suo suono a quello di Davis, c’è un suo periodo che apprezza di più?
«Adoro tutto di Miles. Da quando a diciannove anni suonò con Charlie Parker alla svolta di Bitches Brew e ancora oltre. Una sua nota, anche una stecca, vale l’opera omnia di un sacco di trombettisti famosi e sa perché? Perché quello che suona è profondissimo. Quello di Miles è il suono dell’anima, con una identità che resta sé stessa al di là della cornice, anche quando suona con Zucchero. Lo stesso discorso vale per Chet...».

O anche per Rava.
«Io me lo auguro, ma sinceramente non mi sento di accostare il mio nome al loro: sono semplicemente di un altro pianeta».

Lei è stato tra i pionieri dell’avanguardia jazzistica. “Pilgrims and the stars” è del 1975, sono passati più di quarant’anni ed è ancora modernissimo. Che anni erano quelli?
«Dunque, io allora abitavo a New York, dove sono stato dal 1967 al 1978. Li ricordo come anni durissimi, ma anche stimolanti. C’era la guerra in Vietnam e ogni giorno per strada manifestavano migliaia di persone con i veterani senza braccia, senza gambe, tronchi umani. Poi frequentavo Harlem; lì c’erano le Black Panthers che conoscevo bene».

Ah sì?
«Ogni quindici giorni portavo delle pellicole, che mi arrivavano da Buenos Aires. Erano i film di Solanas e Getino, cineasti militanti duramente contro il potere. Le portavo nella sede delle Pantere nel cuore di Harlem; una tipica brownstone decisamente appariscente: neon blu, il bandierone, loro fuori con basco, giacca di pelle, mitra. In generale, New York era una città violentissima. Uscire la sera un azzardo, Times Square un insieme di piccoli cinema porno e spacciatori».

E questo come rimbalzava nell’espressione artistica?
«C’era una grande interconnessione tra le arti, l’idea che si dovessero mescolare; noi musicisti, ad esempio, lavoravamo con quelli del new cinema, i fratelli Mekas, e poi c’era il giro di Warhol frequentato anche da jazzisti come Mingus, che aveva scritto le musiche di “Shadows” di Cassavetes. Io, personalmente, ero coinvolto nella scena del free; ci sentivamo parte di una avanguardia, ci sentivamo impegnati e alla fine diversi. Diciamocelo, consideravamo gli altri degli stronzi, mentre a ripensarci forse lo eravamo noi… (ride: Ndr.)».

Oggi da noi in Italia crede sia possibile costruire nuove avanguardie? Come siamo messi?
«Io so che siamo messi non bene, ma benissimo! Quando ho iniziato a suonare non mi sarei mai sognato una vivacità del genere. C’è un’attività di concerti intensissima, si suona tanto e ovunque; poi tutti si lamentano, perché fa piacere lamentarsi, ma avrei dato una gamba per avere condizioni come le attuali».

Le scuole e i conservatori di jazz hanno aiutato o, come dicono in molti, hanno creato robot che suonano tutti uguali?
«Male non fanno. Oggi c’è una quantità e qualità di musicisti in Italia strepitosa; quando tornavo in Italia dagli States per le tournée di trombettisti c’ero io, pochi altri; oggi ne trovi cinquanta che suonano da paura».

Qualcuno che le piace più di altri?
«Tanti. Fabrizio Bosso tecnicamente nel mondo ha pochi rivali, se ne ha; poi Fresu, Boltro, Falzone e Dino Rubino, che è il mio preferito: quando è in forma suona in modo incredibile. Chiaro che, essendo moltissimi, spesso suonano nello stesso modo, ma è pazzesco che oggi in migliaia possano vivere di jazz».

Un cambio di passo in meglio, quindi.
«Ai miei tempi, l’idea di vivere di jazz era da matti e infatti solo i matti tipo me, Nunzio Rotondo o Franco D’Andrea l’hanno fatto. Gli altri, che so, Basso, Valdambrini, Piana suonavano nei night club, ma non vivevano di quello. Il jazz ha iniziato lentamente a prendere piede, e io so il perché, dalla fine degli anni ’70».

E perché? Cosa è successo?
«Verso la fine degli anni ’60 c’era la moda di partire coi sacchi a pelo e andare a sentire i mega concerti. Quella cosa si trasformò in protesta: volevano sfondare le porte, perché la musica doveva essere libera, gratis e via così. Poi, nel ’77, col lancio di una molotov a Santana sul palco è cambiato tutto e non sono stati più dati i permessi per i mega concerti. Allora, queste migliaia di ragazzi si sono riversati sulla neonata Umbria Jazz e di colpo hanno scoperto questa musica. A quel punto, il Partito Comunista s’è reso conto di che attrattiva in quel momento potesse avere il jazz e l’ha iniziato a mettere in ogni programma di Festa dell’Unità. A Botteghe Oscure c’era addirittura un ufficio, si chiamava Amici dell’Unità e lo dirigeva Loris Barbieri».

Addirittura un ufficio?
«Era molto attento e sensibile a quel fenomeno, un anno mi combinò diciotto Feste (sorride divertito: Ndr), portò qui anche Mingus, Don Cherry, Anthony Braxton; un livello stratosferico e la cosa incredibile fu suonare davanti a venti, trentamila ragazzi a feste di partito».

A proposito di ragazzi, da sempre suona con giovani musicisti, spesso giovanissimi. Ha lanciato stelle come Bollani, Beggio o Petrella. Che scambio generazionale si crea?
«A me interessa suonare con chi condivide il mio modo di vedere la musica e questo, di fatto, avviene soprattutto con gente più giovane di me. I miei coetanei (certo con qualche illustre eccezione, tipo D’Andrea o Intra) sono ancorati a quello che facevano nel momento di loro massima efficienza. Ma in realtà per me è uno scambio vero e proprio».

Le contropartite?
«Loro ci guadagnano l’esperienza, io gli insegno a “buttarsi”, suonare come fosse l’ultima volta. E poi, accorciano di netto la gavetta: si trovano da subito in serie A. Io, però, ci guadagno il restare in contatto con quello di nuovo che sta succedendo intorno a me».

A voler fare un riassunto, come sono andati questi sessant’anni sui palchi?
«Non cambierei un pelo della mia vita, penso di aver avuto una fortuna sfacciata. Che è quella che ci vuole, altroché! Certo, occorre aver talento e carisma, ma per quanto banale, serve anche essere nel posto giusto al momento giusto. Mi è capitato quando Gato Barbieri mi diede un’occasione e poi con Steve Lacy che mi ha portato a New York: da sconosciuto e inesperto, dopo un mese ero amico di Gil Evans, andavo a suonare con Cecil Taylor, Archie Shepp, gente così...».

Un passato che è la Storia, ma il presente le piace? Come sta il nostro Paese?
«Al di là del jazz? L’Italia mi spaventa. È un momento difficilissimo e non so se ne usciremo, mi capita di pensare che, sì, sono contento di non avere figli: se avessi un figlio di venti o trent’anni sarei molto preoccupato per lui».

Cosa la preoccupa, in particolare?
«Il fatto che, al di là delle ideologie, specie in questi ultimi anni siamo in mano a degli incapaci totali, anzi ignoranti e incapaci, questo è quello che vedo. Quando io sento uno che parla della «democrazia millenaria della Francia» o di «Pinochet in Venezuela» mi spavento; mi fa effetto pensare di stare in mano a gente che dice cose così».

Il teatro, dove è ospitato all’interno del cartellone dell’ormai tradizionale “Una voce per ogni strumento”, s’è riempito come un uovo; Gloria Mazza, gran regista dell’evento, bussa al camerino, s’è già in ritardo. Lui allarga il suo miglior sorriso e dice tutto contento, manco fosse la prima volta: “Oh! Adesso si va a suonare!”

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