Guanti e camici per i medici di base? Mai arrivati. Vaccini per l’influenza? Troppo pochi. Le Asl? Un caos. La nuova ondata era prevista ma i fondi per ospedali e cure non sono stati sfruttati

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I medici di base sono ancora senza guanti e camici. E in Campania, Lazio e Sardegna le terapie intensive sono in affanno. In Lombardia è impossibile trovare una dose di vaccino anti-influenzale, mentre un po’ ovunque le code ai drive-in per fare un tampone sono infinite. Nonostante fosse stata ampiamente prevista da virologi e infettivologi già all’inizio dell’estate, l’Italia non è pronta ad affrontare la gestione della seconda ondata di epidemia da coronavirus. Eppure il tempo per organizzarsi c’era, e pure qualche soldo era stato stanziato. Nel decreto Rilancio di giugno il Governo aveva varato un aumento delle risorse destinate al servizio sanitario nazionale da 2,5 miliardi - metà per il 2020, il resto sul 2021 - proprio per affrontare l’autunno e l’inverno. Denaro immediatamente ripartito fra le Regioni, ma che non ovunque è stato sfruttato per far partire i piani di emergenza. Così, dopo un’estate da cicala, l’autunno è arrivato portando con sé i mali di stagione, difficilmente distinguibili dal Covid-19 senza un tampone. Da qui un rimpallo di responsabilità fra ministero della Salute, direttori e assessori regionali, Asl, medici di medicina generale e medici ospedalieri, per stabilire di chi sia la colpa dei mancati adeguamenti. Nel frattempo il numero dei casi aumenta.

Lo stesso ministero della Salute non è in grado di stabilire quali Regioni abbiano effettivamente avviato le assunzioni straordinarie e attivato le Usca, Unità Speciali di Continuità Assistenziale, ovvero il primo punto di riferimento per la gestione domiciliare dei casi di Covid, e non sa neppure se e quanti infermieri di comunità siano stati assunti, tanto meno se siano state avviate le centrali regionali di coordinamento dell’assistenza territoriale: «Il monitoraggio delle spese sanitarie, affidato all’Agenas, Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali, viene effettuato ex post. Non è ancora possibile sapere se e come le Regioni abbiano investito gli extra finanziamenti stanziati a giugno», risponde all’Espresso un portavoce del ministero. I dati di Agenas saranno disponibili ad aprile 2021, nel frattempo si va alla cieca.

«Sappiamo che il ministero sta faticando a raccogliere queste informazioni e che molte regioni non hanno presentato piani coerenti di potenziamento della sanità territoriale. Questo è grave, perché senza investimenti si rischia di tornare a situazioni paragonabili a quelle della scorsa primavera», spiega Stefano Cecconi, responsabile Politiche della Salute del dipartimento Welfare della Cgil nazionale. Per quanto riguarda l’aumento dei posti letto nei reparti di terapia intensiva, infettivologia e pneumologia e la creazione di percorsi dedicati e isolati nei nosocomi per la gestione dei pazienti Covid-19, le aziende ospedaliere hanno risposto rapidamente perché il governo ha imposto l’ordine di comunicare al ministero della Salute i progetti di potenziamento. Tuttavia, resta ancora molto lavoro da fare: a livello nazionale, in terapia intensiva si è passati da 5.179 posti letto pre-covid a più di 6.500, ma ne erano previsti 8.732.
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Nello specifico, la Puglia ha effettivamente aumentato il numero di letti, ma non ha assunto medici o infermieri addestrati per farsene carico. Emilia Romagna, Lombardia e Toscana hanno rivisto la capienza dei reparti Covid, acquistato nuove ambulanze e assunto anestesisti e infermieri. Calabria, Lazio, Sicilia e Veneto non hanno presentato alcuna documentazione: «Non significa che non abbiano avviato programmi di miglioramento, ma che non hanno pubblicato i piani di emergenza Covid. Il che ci lascia perplessi e il dubbio sulle migliorie apportate rimane», spiega Andrea Filippi, segretario della Funzione Pubblica Cgil Medici. Altrove alcune aziende ospedaliere stanno assumendo tecnici e architetti per disegnare percorsi ad hoc dedicati al Covid negli ospedali. Peccato che prima di novembre non entreranno in funzione.

Ancora più vaghi i piani di potenziamento dell’assistenza territoriale, vale a dire quella rete di medici e infermieri del territorio che è stata l’anello mancante nella fase acuta della crisi e che ha portato molti pazienti a rivolgersi direttamente agli ospedali in condizioni già molto gravi e spesso favorendo il diffondersi del contagio. «Siccome per l’assistenza territoriale il ministero della Salute non ha previsto alcun obbligo di invio dei piani di potenziamento, le Regioni sono andate in ordine sparso. Sappiamo che Marche, Piemonte, Toscana e Veneto hanno avviato progetti e inviato la comunicazione al ministero, mentre Campania, Emilia Romagna e Lombardia sono in istruttoria. In altri territori le Asl non hanno ancora predisposto i piani di potenziamento. Come si poteva immaginare, mentre la macchina ospedaliera ha risposto con tempi adeguati, la sanità territoriale, che è stata profondamente smantellata negli ultimi vent’anni, non è riuscita a riqualificarsi in pochi mesi. Ecco perché è fondamentale richiedere i 36 miliardi del Mes per la sanità, altro che farne a meno!», dice Cecconi. Da qui un appello inviato alla presidenza del Consiglio, firmato da cento associazioni italiane fra cui i tre sindacati confederali, per utilizzare almeno 30 dei 36 miliardi del Mes per l’assistenza sociosanitaria territoriale.

«Sì al Mes, ma anche a un sistema di controllo della spesa», commenta Antonio Gaudioso di Cittadinanzattiva, pronta a presentare un ricorso d’urgenza al Tar contro metà delle Regioni italiane che non hanno fornito all’associazione i dati sulla campagna vaccinale, nonostante avesse presentato un accesso civico agli atti. Fra queste, ovviamente, la Lombardia, che essendosi mossa in ritardo nell’approvvigionamento dei vaccini, ha pagato 10,4 milioni per 400mila fiale, quando erano previsti 15 milioni di euro per 1,5 milioni di vaccini. «Se il ministero non è in grado di tenere traccia dei pochi miliardi aggiuntivi investiti nella sanità in questi mesi, cosa potrebbe succedere con i 36 miliardi del Mes?», si domanda Gaudioso, che parla di «gigantesco problema di rendicontazione finanziaria, che deve essere affrontato una volta per tutte nella gestione federale della sanità». Non che a livello centrale le cose vadano meglio: «Da sette mesi, insieme a 70 associazioni, abbiamo proposto di riportare le tasse sul tabacco riscaldato dal 25 al 50 per cento, com’era prima che il Conte I, su indicazione della Lega, tagliasse quel contributo per fare un favore alla lobby del tabacco. Sarebbe una tassazione in linea con il resto d’Europa e che ci avrebbe permesso di recuperare 300milioni per stabilizzare gli investimenti sull’assistenza domiciliare. Ma nulla, i politici continuano a favorire le lobby, anziché preoccuparsi della salute dei cittadini».

Tirati in ballo da più fronti sono i medici di base. Il comitato tecnico scientifico ritiene necessario coinvolgerli nell’esecuzione dei tamponi rapidi, per alleviare il carico a cui drive in, centri di analisi e Asl sono sottoposti da settimane. Nel Lazio è stato pubblicato il bando del progetto pilota per permettere ai medici di effettuare tamponi rapidi nei propri studi e a domicilio. Ma il sindacato Medici Italiani Lazio lancia l’allarme: «È da irresponsabili effettuare i tamponi negli studi. Si rischia una strage tra i medici di famiglia», commenta Cristina Patrizi del sindacato.

Del resto, ancora oggi, in alcune zone d’Italia le Asl non hanno fornito ai medici di famiglia i più basilari dispositivi di sicurezza - mascherine, guanti, camici e visiera -, tant’è che il commissario straordinario per l’emergenza Covid-19, Domenico Arcuri, è pronto ad effettuare dei trasferimenti diretti di materiale ai medici, scavalcando quindi la gestione territoriale. Mentre le nuove nate Usca, Unità speciali di continuità assistenziale, che dovrebbero occuparsi della gestione domiciliare dei pazienti Covid-19, non ovunque sono state attivate e, dove sono partite, non hanno previsto l’ingresso di nuovo personale. Piuttosto stanno lavorando con i dipendenti già a servizio della Guardia Medica o caricando di extra lavoro gli infermieri delle Asl. Le risorse all’osso fanno sì che il lavoro di cura domiciliare ricada sui medici di famiglia o su nessuno: «È incredibile che a ottobre ci sia questa situazione di caos. Sulla scuola si è fatto un gran baccano perché tutto fosse pronto per settembre, sulla sanità non si è fatto nulla. È evidente che le task force regionali e nazionali non hanno idea di cosa sta succedendo sui territori», dice Silvestro Scotti, segretario nazionale della Fimmg, il sindacato dei medici di base, che continua: «Poniamo il caso di un territorio con 700 casi positivi che, in base alle statistiche, sono stati in contatto con settemila persone. La prima cosa che queste persone fanno è allertare il proprio medico di base, il quale contatta l’Asl, che dovrebbe sguinzagliare i medici e gli infermieri delle Usca per effettuare i tamponi a domicilio e gestire l’intero processo. In realtà, questo non succede. Il più delle volte il paziente rimane nella gestione di se stesso, si fa prendere dall’ansia e, visto che il tampone non va da loro, sono loro che escono di casa e si mettono in fila al drive in o in un centro diagnostico privato, per altro contribuendo alla diffusione del contagio. Noi medici di base saremmo favorevoli ad effettuare i primi tamponi rapidi, ma non certo a mani nude, senza dispositivi e senza una rete che ci consenta di interagire con le aziende sanitarie locali, con i dipartimenti di prevenzione. Ma tutto questo ancora manca».
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Anche nel caso di paziente sintomatico ai domiciliari la situazione non cambia: «Dovrebbero rivolgersi alle Asl, ma spesso non ottengono risposta, così chiamano il medico di base, che non avendo i dispositivi di protezione sufficienti, fa consulti online. Anche i 236 milioni che il governo ha stanziato per l’acquisto dei pulsiossimetri e che aveva promesso di distribuire ai medici di base per valutare l’aggravarsi della malattia, non sono mai arrivati. Come sono stati spesi quei soldi?», si domanda Scotti.

Quindi, con l’assistenza domiciliare a zero, se la situazione del paziente si aggrava c’è il ricovero in ospedale: «Se ci fosse una seconda ondata, come quella che abbiamo vissuto la scorsa primavera, gli ospedali non sarebbero pronti ad affrontarla», avverte Alessandro Vergallo, presidente di Aaroi-Emac, l’associazione dei medici anestesisti, che aggiunge: «La buona notizia è che la popolazione che manifesta sintomi da Covid si mette in allarme per tempo e i casi che arrivano in ospedale non sono gravi come in passato. Ma al momento, per quanto è dato sapere, non esiste un protocollo di intervento per i medici e gli infermieri del territorio».

Insomma, non esiste una cura che si possa somministrare a casa per arrestare la malattia. Anzi, alcuni approcci terapeutici sono stati addirittura ridimensionati. È il caso dei farmaci antimalarici, cioè la clorochina e l’idrossiclorochina, che al momento non vengono più utilizzati; mentre i farmaci antivirali, come il remdesivir, vengono usati solo per studi clinici e comunque in caso di ossigenoterapia e quindi in ospedale. Gli anticorpi monoclonali sono di fatto a uso ospedaliero e il plasma iperimmune non può essere adottato come terapia domiciliare. Gli antibiotici, ad oggi, sono considerati di solo supporto ai cocktail di farmaci sovra descritti e solo l’eparina, usata come trattamento preventivo delle trombosi, può essere applicata come terapia domiciliare. Altri farmaci, come fans, paracetamolo, corticosteroidi non è provato diano risultati vantaggiosi. «In buona sostanza, secondo le nostre conoscenze di anestesisti, non vediamo applicabilità a trattamenti domiciliari con alcun farmaco per ridurre il ricorso alle cure ospedaliere dei pazienti sintomatici», spiega Vergallo, che continua: «L’apporto che, a nostro parere, la medicina di famiglia potrebbe dare sarebbe quello di una maggior efficienza nell’evitare che la popolazione si rivolga in massa al pronto soccorso per esigenze sanitarie non covid curabili a domicilio, e della collaborazione per le vaccinazioni anti-influenzali». Ma qui la matassa si fa davvero ingarbugliata, perché metà delle regioni italiane non hanno abbastanza dosi vaccinali neppure per le fasce più a rischio. E la sanità italiana ripiomba in un inarrestabile caos.