In questi giorni anche col secondo volume di “Note di viaggio” (non è escluso un terzo). Gli altri, i colleghi, che cantano le sue canzoni e in copertina lui davanti ai suoi interpreti in una riproduzione del “Quarto stato” di Pellizza da Volpedo. Quadro politico se ce n’è uno. Del resto la sua passione per la cosa pubblica non si è mai sopita, è «semmai cambiata attraverso il tempo», concede.
In proposito, ha sollevato un vespaio di polemiche una sua affermazione affidata ad Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera, stupefacente solo per chi non conosce le infinite sfumature della sinistra, oltre allo spirito libertario, anarcoide e ribelle del cantautore. Ha detto: «Mai stato comunista». Frase che merita almeno una postilla perché ha votato, come svela in questa intervista con L’Espresso, per il Pci di Enrico Berlinguer. Ci arriveremo.
Francesco Guccini, partiamo dall’ultima fatica letteraria, un racconto ambientato nel suo Appennino dove si contrappongono cittadini e montanari con echi di fantasmi, apparizioni, sinistri scricchiolii. Un dualismo ancora attuale?
«Per certi versi no, le automobili, la televisione, hanno appiattito le differenze. Però alcuni personaggi si possono incontrare anche adesso, sono ancora veri. Gli uomini dell’osteria, prudenti nel senso che non vogliono interferire. O il professore che non è un professore vero ma lo chiamano così. Uno del genere l’ho messo pure in una canzone, “Il frate”, era andato in seminario ma aveva smesso per una donna. Sapeva però di filosofia e di latino e quando non dava lezioni faceva il piastrellista».
Storie dei suoi monti. Nessun rimpianto verso la città che ha lasciato?
«No. Forse li avrei se fossi più giovane. Li avrei per la Bologna del periodo d’oro tra gli Anni Sessanta e Novanta. Adesso è molto cambiata, mi dicono».
Non ci va più?
«Talvolta. Ho ancora la casa in via Paolo Fabbri 43. Mi infastidisce il traffico. Sto bene a Pàvana, anche se ci sono arrivato tardi perché non riesco a fare le cose che mi ero ripromesso. Camminare, andare a funghi... Mio padre faceva l’orto, io faccio il direttore artistico».
Cosa le manca della sua Bologna?
«Gli anni che avevo allora».
L’ha già detto in “Eskimo”...
«Le ragazze, la vita sociale, le serate con gli amici, con la chitarra e le carte. Negli ultimi tempi non si cantava quasi più. Anche qui in montagna non gioco a carte, quelli con cui lo facevo sono morti».
Come passa la giornata?
«Scrivo. Guardo la tv. Vado a cena. Con altri tre amici facciamo qualche zingarata, parliamo di calcio. E pensare che non sono mai stato tifoso. Ora un po’, della Juve».
E la passione politica?
«Mai avuta. Da parte materna erano tutti democristiani, erano in sette, sono tutti morti. Da ultimo uno zio era diventato di centro-sinistra perché era della sinistra cattolica. Da parte di padre le donne erano tutte di chiesa. C’era solo un prozio, a cui ho dedicato una canzone, “Amerigo”, che era emigrato in America, era socialista e iscritto alla società Giordano Bruno. Però credo che votasse anche lui per la Dc perché i miei nonni avevano un mulino, erano proprietari di un podere e allora c’era l’incubo dei comunisti che avrebbero portato via tutto».
Lei dice: mai avuto passione politica. Però per intere generazioni è stato un simbolo di passione politica.
«È strano infatti. Per me la politica è avere idee di un certo tipo a 20 come a 80 anni, forse leggermente cambiate attraverso il tempo. Ho dichiarato di non essere mai stato comunista, sono sempre stato di sinistra. A me piaceva il Partito d’Azione, Giustizia e Libertà, poi ho scritto “La locomotiva” e parlo di anarchia. Non si può essere anarchici nel 2020, però c’è questa simpatia romantica, letteraria, per l’anarchia di fine Ottocento inizio Novecento, le canzoni di Pietro Gori, “Addio a Lugano”, “Stornelli dell’esilio”...».
Simpatia anche per gli anarchici che a quell’epoca sparavano ai re?
«La questione è molto complessa. Io parlo sempre della doppia cultura come diceva Gramsci. La cultura popolare e la cultura colta. La cultura popolare è scomparsa come la civiltà contadina. La quale aveva riti, magie e credenze che si ritrovano nel mio ultimo libro. Ma aveva anche questa bella idea del proletariato. Però poi mia nonna cantava una canzone per l’assassinio di Umberto I dove nel ritornello “la vil mano anarchica ha spento il nostro re”. Insomma c’era un po’ di confusione».
C’è del Pasolini nella sua analisi sulle sciagure derivate dalla scomparsa della cultura popolare. L’ha mai conosciuto a Bologna?
«Ovviamente c’è del Pasolini ma non l’ho mai conosciuto».
Il Pci pure aveva radici popolari.
«Da libertario non potevo essere stalinista. Non potevo stare con Togliatti. Quando discutevo con gli amici comunisti citavo sempre Barcellona, gli anarchici uccisi dagli stalinisti».
Ma a un certo punto arrivò Berlinguer.
«È vero, Berlinguer era socialista in fondo, e mi riferisco al socialismo pre-craxiano, a Nenni. Il suo comunismo era scevro dallo stalinismo dai carri armati in Ungheria e a Praga, quindi occidentale e molto diverso, mi trovava daccordo».
E ha mai votato per il Pci di Berlinguer?
«Sì sì, con lui ho votato Pci. Lui mi stava bene».
A quell’epoca, Anni Settanta, c’era il caos ideologico a sinistra, comprese le numerose sigle extraparlamentari.
«Dal famoso congresso di Livorno del 1921 la sinistra si è sempre scissa. Un difetto tragico. Anche adesso non c’è solo il Pd ma ci sono seimila correnti».
Una dannazione o un segno di pluralismo?
«Il pluralismo non porta unità, forza. E c’è una destra che sta emergendo, violenta e prepotente. Nei giorni scorsi ho guardato un documentario su Rai Storia. C’erano due ex della X Mas, una donna e un uomo. Parlava soprattutto la donna ed era ancora fascista. Diceva di aver combattuto per l’onore dell’Italia e non per i tedeschi, a causa del tradimento dell’8 settembre. Ma come? Avete combattuto per quelli che facevano Auschwitz! E questa idea sta tornando. La Segre ha bisogno di una scorta. E siamo nel 2020. Mi piacerebbe sapere per chi votano quelli che hanno massacrato Willy».
La loro rappresentazione di sé mi pare sintomatica.
«Anche a me pare evidente. Ma nessuno l’ha detto. Certo non votano Pd o sinistra. È una destra pericolosa. Per il 25 aprile scorso, dopo l’invito di Carlo Petrini a cantare Bella Ciao, mi è venuto il ghiribizzo di cambiare le parole, “o partigiano portali via”, Berlusconi, Salvini, Meloni. La Meloni si è incazzata come una bestia, mi ha definito un seminatore d’odio perché l’ha interpretata come “portali a piazzale Loreto”, io pensavo a Berlusconi con le fidanzate, Salvini al Papeete a bere mojito e lei a spezzare le reni alla Grecia. Una reazione violentissima».
Segno di un clima incattivito?
«Fomentato anche. C’è gente che sperava che questo autunno la crisi economica successiva al Covid avrebbe portato qualcuno per strada a sparare col fucile. E invece per fortuna mi pare non stia succedendo».
Un bersaglio, soprattutto di Salvini, sono i migranti. A cui lei ha dedicato una canzone e l’ha anche parzialmente cantata in “Note di viaggio” secondo volume.
«A Ellis Island c’è una targa con il nome del mio prozio Enrico, quello di “Amerigo”. E ci sono anche più di duecento migranti italiani col cognome Salvini... Noi abbiamo la memoria troppo corta. C’è persino qualcuno che nega l’Olocausto! E il razzismo arriva dall’ignoranza. Ci sono dei cattolici che sento lamentarsi: noi se dobbiamo cambiare una finestra abbiamo bisogno di un permesso e gli extracomunitari fanno quello che vogliono. Oppure: dalle loro cucine escono degli odori strani. Replico: ma magari forse anche noi italiani quando siamo arrivati in America facevamo odori sgraditi ai nasi anglosassoni! E ancora: quelli hanno bambini e li mollano lì per strada e sono molesti. Non ricordano quando eravamo bambini noi anche perché di bambini “nostri” non ce ne sono più, le case qui sotto la mia sono quasi tutte vuote. Non c’è un odio feroce, in montagna, intendiamoci. Sopportano, tollerano che è però ben diverso da accogliere».
Guccini, ora la musica è finita. Non le mancano i concerti il rapporto col pubblico?
«Canzoni non ne faccio più, non ne sono più capace. Mi manca il prima e il dopo dei concerti, il rapporto con gli altri della band, le barzellette».
E il fiasco di vino.
«Quella è una leggenda. Non c’era. C’era una bottiglia e fa una enorme differenza. Ne bevevo solo metà perché sul palco devi essere lucidissimo seguire i musicisti, le reazioni del pubblico. In certi periodi, mi riferisco agli Anni Settanta, bastava una frase di traverso per far rivoltare il pubblico».
Resta la scrittura. Lei sembra più innamorato della parola che della musica.
«Da sempre. Non sono mai stato un vero musicista, la musica la conosco un tanto al chilo. Sono già all’opera col prossimo racconto. Anni fa pubblicai “La cena”. Era la storia ambientata negli Anni Trenta di quattro personaggi che una sera d’inverno si incamminarono a piedi sotto una neve tremenda per andare in trattoria. Allora la gente non mangiava tutti i giorni e quella era l’occasione per sfogarsi. Bevvero al punto che al ritorno non riuscirono a trovare la strada per casa. Ecco, voglio raccontare una cena contemporanea, ora che non c’è più fame e si mangia per sfizio. E poi c’è il romanzo che terrò per ultimo...».
Ce lo anticipa?
«È un’idea che ho da secoli. Una storia più o meno vera. Mia bisnonna Francesca Fornaciari aveva sposato un bisnonno di Enzo Biagi per cui col giornalista eravamo parenti alla lontana. Una delle ultime Fornaciari mi ha narrato che una volta quando da Pàvana passava il confine tra Granducato di Toscana e Stato Pontificio, gli avi che abitavano proprio vicino alla dogana si erano accordati con le guardie ducali per fare contrabbando di sale. Il Granduca imponeva il salgemma di Volterra quando è noto che il sale marino è il migliore. Io mi sono immaginato un ragazzo di 15 anni che con cavalli e muli va alle saline di Cervia. Sulla strada ha varie peripezie. Incontra in un locanda una donna che si rivelerà essere una prostituta e lui soldi per pagare non ne ha. Arriva a destinazione, vede per la prima volta il mare e ne rimane impressionato. Al ritorno viene fermato da una carovana di briganti armati. Infine quando arriva col carico di sale si scopre che le guardie con cui avevano l’accordo sono state cambiate e vengono tutti arrestati. C’è anche l’opzione di un finale più tragico ma ci devo ancora pensare. Ho già scritto il primo capitolo».
“Che cosa sa Minosse” (Giunti, pp. 184, € 15) di Francesco Guccini e Loriano Macchiavelli arriva in libreria il 21 ottobre