L'offesa che ancora oggi continuamo a fargli è alimentare la sua icona con un pugno di frasi estrapolate dal contesto della sua opera sterminata, trasformando in slogan brillanti le sue intuizioni fulminee

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«Caro Calvino… tu dici che rimpiango l’ “Italietta”: tutti dicono che rimpiango qualcosa… Ciò che rimpiango (se si può parlare di rimpianto) l’ho detto chiaramente, sia pure in versi… Io rimpiangerei l’ “Italietta”? Ma allora tu non hai letto un solo verso delle “Ceneri di Gramsci” o di “Calderón”, non hai letto una sola riga dei miei romanzi, non hai visto una sola inquadratura dei miei film, non sai niente di me!»

Così scriveva Pasolini su Paese sera in una Lettera aperta a Italo Calvino nel ’74, ricordando come «questa Italietta» lo avesse «arrestato, processato, perseguitato, linciato per quasi due decenni», ed evocando «l’illimitato mondo contadino», «un universo transnazionale… avanzo di una civiltà precedente» alla «civiltà dei consumi, cioè del nuovo e più repressivo totalitarismo che si sia mai visto», un unico «modello culturale offerto agli italiani (e a tutti gli uomini del globo, del resto)». E Calvino era appunto uno di quegli scrittori che già nel ’59 aveva riconosciuto in Pasolini un «raffinato e colto poeta lirico» e nel gergo dei suoi romanzi un interesse da «filologo e sociologo liguistico», erede di Gadda.

Però, in “Usi politici della letteratura” (1976), sempre Calvino scrive qualcosa che spiega cosa sia accaduto alla figura di Pasolini: «La vita e la morte e la vita postuma di Pasolini hanno consacrato il ruolo dello scrittore come provocatore».

Ed è questa consacrazione: Pasolini provocatore, Pasolini che si investe di un ruolo pubblico scomodo, anomalo, profetico… quante volte lo abbiamo sentito ripetere questo tratto di preveggenza sintetizzato in frasi ormai codificate («metamorfosi antropologica», «nuovo edonismo» della «comodità e del benessere»), è questo Pasolini che «getta il proprio corpo nella lotta» con quel «Io so» del famoso articolo del ’74 per il Corriere della Sera, “Che cos’è questo golpe?”, su stragi, nomi, potenti, Cia… fino al ritrovamento (tra il 1° e il 2 novembre del ’75) del suo stesso corpo martoriato all’idroscalo di Ostia, è questo Pasolini trasformato in vate civile marmoreo, privo delle sue contraddizioni (perché Pasolini conosceva benissimo i meccanismi dei media, tv compresa, e sapeva come abitarli), è questo Pasolini purificato anche dei suoi limiti di visione (la negazione del corpo della donna sulla questione dell’aborto assimilato a “omicidio” e “colpa”), è questo modo di far vivere all’icona Pasolini una vita a sé ritagliata in un pugno di frasi estrapolate dal contesto dell’opera sterminata del poeta, romanziere, regista in cui cova Dante, Gadda, Leopardi, i Vangeli, un neorealismo spinto verso il surreale, che finisce per fargli il torto peggiore: trasformare in slogan brillanti certe sue intuizioni fulminee come «l’uomo medio di oggi può interiorizzare una Seicento o un frigorifero, oppure un week-end a Ostia» piuttosto che la natura e l’umanità.

Sta in questa iconografia tascabile l’offesa che oggi facciamo al poeta, allo scrittore, al regista che ha perseguito un proprio discorso controverso e poliedrico, costringendolo a urlare anche a noi: «Non sai niente di me!»