Senza l’atmosfera ospitale non sarebbe possibile la vita sulla Terra. Senza il movimento dell'aria non sarebbe nata nessuna civiltà. Eppure quasi mai ci fermiamo a ragionare su questo elemento che non ha forma propria, inafferrabile quanto essenziale

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Il tempo atmosferico esercita una marcata influenza sul mio umore, come credo su quello di milioni di persone. Una giornata blu di sole non è come una di cielo nero e pioggia torrenziale. Del resto, come ha scritto Gertrude Stein, «Ognuno è come la sua terra e la sua aria. Ognuno è come è basso o alto il suo cielo, l’aria greve o chiara, il vento presente o assente». Partendo da questa constatazione, basata per così dire sull’ineffabile ma al contempo su qualcosa di concretissimo e puntuale, ho cominciato prima a porre particolare attenzione al clima e ai fenomeni atmosferici, poi a studiarli.

Quello che ho scoperto è che i fenomeni atmosferici si appoggiano – sempre – a una forza invisibile e impalpabile, eppure potentissima e onnipresente: il vento. Studiando poi più da vicino il vento, ho scoperto che è uno dei fattori determinanti dell’esistenza stessa del nostro pianeta, anche se probabilmente mai gli abbiamo sentito attribuire tutta questa importanza. Il vento infatti è il convitato di pietra di ogni cosa riguardi il tempo e lo spazio in cui siamo abituati a vivere, a tal punto che la storia del mondo e della coscienza umana si potrebbero riscrivere come storia del nostro debito nei confronti del vento.Il nostro pianeta, infatti, è dotato da un lato di un’atmosfera particolare, che la scienza ritiene ospitale, a differenza di quella degli altri pianeti del sistema solare, dall’altro di una massa tale da generare una forza di gravità adatta a tenere l’atmosfera ancorata alla Terra.

Nessun altro corpo del sistema solare ha una corazza d’aria protettiva che scherma i raggi ultravioletti del sole e fornisce riparo dalla pioggia di meteoriti; nessun altro pianeta conosce la radiosità che disperde l’abbagliante luce bianca dello spazio e la tempera in arcobaleni, tramonti e crepuscoli. Nessun altro pianeta ha il cuscino di relativa stabilità dell’atmosfera che rende possibile la vita in un’infinita varietà e che quindi richiede continuo adattamento e sfocia poi nell’evoluzione e alla fine nella creatività.

Viviamo su un organismo avvolto da una membrana d’aria, umida e lucente, all’interno della quale ci sono le grandi arterie dei venti dominanti, nutriti da una fitta rete di brezze capillari che trasportano energia e informazioni da un’estremità all’altra, senza sosta. Perché l’aria non è soltanto soffio, ma è abitata da una microbiologia di esseri viventi che sono gli stessi che hanno generato l’esistenza come oggi la conosciamo, partendo dagli sciami cosmici di milioni di anni fa.

Senza vento, semplicemente, gran parte della terra sarebbe inabitabile, e non si darebbero le condizioni per la nascita della vita. I tropici sarebbero immersi in un calore incompatibile con l’esistenza, e il resto del pianeta gelerebbe. L’umidità sarebbe confinata agli oceani e tutto, eccetto il margine di una stretta fascia temperata, sarebbe deserto. Non ci sarebbe erosione, né suolo. Con il vento, invece, la Terra arriva a vivere.

Se considerassimo il nostro pianeta come un organismo, i venti ne sarebbero il sistema nervoso e insieme quello circolatorio, perché distribuiscono energia e informazioni, elargiscono calore e consapevolezza. Non solo non esisterebbe la vita, ma non si sarebbe neppure mai sviluppata la civiltà, ovvero il vivere in comunità che si nutrono del cibo prodotto da altri animali o estratto a piacere dalla terra. Gli storici ritengono infatti che la civiltà sia nata dodicimila anni fa nelle valli dei fiumi Tigri ed Eufrate, e sia poi dilagata fino alle rive del Nilo e dell’Indo, del fiume Giallo in Cina e delle foreste e degli altipiani dell’America centrale e meridionale.

Se si segue la linea ideale secondo la quale la civiltà si è sviluppata si vede che si allunga per quella che i climatologi chiamano isotermia, ovvero una retta che taglia il globo trasversalmente ed è percorsa da venti che mantengono la temperatura media annua stabile a 20 gradi, in cui si crea quindi la giusta umidità e la terra è arabile. Una linea retta che in realtà è un’ecologia non visibile, ricca come una foresta tropicale o una barriera corallina, come racconta benissimo Lyall Watson nel suo “Storia del vento”, un grande studio fondamentale sul vento appena ripubblicato da Odoya.

Eppure del vento non si parla mai, non si prende in considerazione, raramente compare come variabile, il vento scompare dal nostro universo di spiegazioni e di esistenza, anche se in ogni momento siamo avvolti in 6 miliardi di tonnellate d’aria, in un anno ognuno di noi respira 10 milioni di volte e usa 5 milioni di litri d’aria, anche se il censimento delle specie microscopiche contenute in un campione d’aria pulita contiene una moltitudine di virus, mille varietà di batteri, 40mila specie di funghi, centinaia di generi diversi di alghe, muschi, anemoni, protozoi, e più di 10mila specie di piante con fiore impollinate dal vento. Gli studiosi delle epidemie e delle pandemie sanno che la loro diffusione segue la linea dei venti, che la mappa che si può sovrapporre per studiare e anticipare la loro diffusione è proprio la carta di tutti i venti del mondo. Eppure dei venti non si parla, esistono ma è come se non ci fossero.

Credo siano due i motivi di questa rimozione dell’importanza dei venti. Il primo è legato al fatto che il vento è invisibile. Il calore e la luce hanno sorgenti visibili, la differenza tra sole e ombra è ovvia, l’acqua e la terra sono cose materiali, con proprietà prevedibili. Tramonto, luna piena, fulmini, un fuoco che avvampa nella foresta provocano meraviglia e allarme perché possiedono un punto focale naturale e quindi, fin dalle forme di vita più primitive, generano meraviglia e richiedono una spiegazione.

Sorgenti calde, cascate, geyser, onde e maree possiedono un ritmo e una realtà e si manifestano entro confini naturali riconoscibili. Il vento invece è invisibile e ubiquo, può alzarsi uscendo dal nulla e solleticarci il collo, oppure può scaraventarci faccia a terra. È vasto e forte abbastanza da sradicare alberi, case, edifici e tuttavia può filtrare attraverso una fessura sottile come un capello. Ci tocca, ci muove, ma noi non possiamo toccarlo a nostra volta. Non ha forma propria, né dimensioni, né odore, né sapore, né suono, tutte le sue proprietà sono prese a prestito, l’esperienza che ne abbiamo ci arriva di seconda mano, dagli effetti che crea su di noi. Il vento è sfuggente, mobile, fugace, difficile da definire.

Poiché, però, l’unico senso di cui ci fidiamo veramente, è la vista («fammi vedere», diciamo, attendendoci che la verità si conformi all’esperienza osservata. In greco, il pensiero ha radice nel suffisso –id, da cui deriva “idea”, e il latino video, vedere), qualcosa che non si vede, come il vento, è dunque qualcosa di cui è bene dubitare, è qualcosa che anzi e ancora più radicalmente non esiste, o ha un’esistenza dubbia, problematica, non catalogabile. Il secondo motivo per cui abbiamo rimosso l’esistenza dei venti come fattore determinante delle nostre vite credo sia più specifico delle culture occidentali.

Babilonesi, egiziani, ebrei, greci e romani non hanno mai pensato di dare un simbolo al “nulla”. Furono gli antichi indiani e poi gli arabi che inventarono, e poi disegnarono, lo zero, come qualcosa che «era nulla e insieme era qualcosa». Di fatto, poi, è stata solo l’importazione dello zero nel sistema matematico occidentale a consentire lo sviluppo dell’algebra e quindi, in seguito, la rivoluzione tecnologica e digitale, che si basa proprio sull’alternanza di zero e uno. Ma il vento, come lo zero, è nulla e insieme è qualcosa, e quindi sfugge alle nostre menti razionalistiche e materialistiche.

Che il vento però abbia un ruolo centrale nella generazione e nella proliferazione della vita (da quella dei batteri e dei virus, a quella della nostra specie) lo dicono la storia delle lingue che parliamo, l’etimologia. In latino animus significa sia “vento” che “spirito”. La stessa cosa con il greco pneuma. In arabo vento è ruh, parola che traduce anche “respiro” e “spirito”. In ebraico ruach include anche i concetti di “creazione” e “divinità”, oltre a quello di “soffio” e “vento”. La stessa cosa per gli indiani dakota e sioux, e la loro parola niya.

Per gli aztechi, la parola che riuniva tutti questi significati era ehecatl, da cui deriva Quetzalcoatl, il dio del sole, del vento e dell’aria. In India invece era il dio Bhagavan che soffiava sulla terra per darle vita. Il pranayama dello yoga è basato sullo stesso principio. «Se abbiamo fiducia nel linguaggio», dice Freud in “L’uomo, Mosè e la religione monoteistica”, «fu il movimento dell’aria ciò che diede l’immagine della spiritualità, perché lo spirito prende in prestito il suo nome dal respiro del vento. […] Nacque così l’idea dell’anima come principio spirituale nell’individuo. Ora il regno degli spiriti si era aperto per l’uomo, ed egli era pronto a dotare ogni cosa in natura con l’anima che aveva scoperto in sé stesso».

Ed è proprio da questa combinazione tra una forza che non si può afferrare e la sua esistenza innegabile che abbiamo tratto la prima esperienza delle cose spirituali. C’è, in fondo alle nostre lingue, la consapevolezza del legame tra vento e vita. E questo stesso legame c’è nel patrimonio di miti di tutta l’umanità, dove il vento ha, sempre, una parte predominante. Il vento è, in tutte le culture, l’elemento maschile che feconda la terra, che invece è il femminile.

Il vento è una fessura nel cosmo che si allarga da noi stessi e dal mondo, e permette alla coscienza di fluire. Le esperienze dirette che abbiamo del vento possono essere piacevoli, come quando una brezza leggera ci soffia sul viso, o spiacevoli, o addirittura terrificanti, se ci trovassimo nel mezzo di una tromba d’aria, per esempio, o di un uragano. Ma sempre, se ci pensiamo, la più alta e forte esperienza della nostra libertà ci è data dal contatto col vento. Come se quello stesso contatto riportasse a galla memorie ataviche e inabissate.

Quando corriamo, quando andiamo in bicicletta, in moto, a cavallo, in barca, e sentiamo il vento che ci colpisce sulla faccia. Quando inspiriamo profondamente aria pulita ossigeniamo il corpo e ci sentiamo più leggeri e liberi. Questa, nascosta tra l’archeologia delle nostre parole, è l’esperienza più vicina a un’estasi che ci è dato di fare. L’inaspettata libertà del vento ci fa sentire più che umani, più grandi di noi stessi, appartenenti a qualcosa di maggiore. È il vento che risuona nelle nostre parole e nel nostro fiato, è lo stesso vento che sta tutto attorno a noi e soffia dentro di noi.