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Quei pescatori di Mazara del Vallo finiti nella rete dei ricatti di Haftar

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Diciotto lavoratori del mare prelevati in acque internazionali e ora in ostaggio del generale. Che vuole in cambio la liberazione di quattro calciatori condannati in Italia come scafisti. E la diplomazia non riesce a risolvere il caso

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L’aula Consiliare di Mazara del Vallo da due settimane è occupata. I lavori dell’assemblea cittadina interrotti. Nel frattempo anche a Roma, davanti al Parlamento, c’è un presidio permanente. «Non ce ne andremo da qua finché i nostri padri, fratelli, mariti e amici non torneranno a casa», dice Naoires Ben Haddad da piazza Montecitorio. Così come afferma contemporaneamente Marica Calandrino dall’aula occupata del Comune di Mazara. A fare questa pressione sulle istituzioni e provare a tenere alta l’attenzione sono le famiglie dei pescatori di Mazara del Vallo arrestati in acque internazionali e portati in carcere a Bengasi, in Libia, lo scorso primo settembre.

Diciotto tra pescatori ed equipaggio: 10 italiani, 6 tunisini e 2 indonesiani sulle navi Artemide e Medinea, oggi sotto il controllo delle milizie del generale Khalifa Haftar della Libyan National Army (LNA). «Non abbiamo notizie dei nostri familiari», continua Naoires, «abbiamo sentito soltanto il capitano Pietro Marrone una volta a metà settembre. Ha chiamato la mamma Rosetta. Accanto a lui si sentiva una voce, molto probabilmente di una guardia libica, che diceva di dire che stavano bene. In quella telefonata abbiamo percepito solo un grido di aiuto, una richiesta di soccorso». Ed è così che i familiari non hanno più voluto perdere un giorno.

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Naoires ha 22 anni e lavora con il Servizio Civile in una casa famiglia per minori stranieri. Alcuni dei ragazzi sono tunisini come lei, altri provengono da diversi paesi dell’Africa occidentale. Dal primo settembre però l’arresto del padre ha cambiato la sua routine. Adesso Naoires fa avanti e indietro da Mazara del Vallo alla capitale, viaggiando in pullman di notte insieme ad altri componenti delle famiglie e all’armatore dei due pescherecci sequestrati, Marco Marrone. «Erano partiti il 20 agosto e sarebbero dovuti tornare in questi giorni, i primi di ottobre. Mio papà si chiama Mhamed Ben Haddad, ha 59 anni, vive a Mazara da 43 anni e da 22 fa il marinaio. In pratica, da quando sono nata io», prosegue Naoires. «Anche la mamma del capitano, Rosetta, nonostante i suoi 73 anni, è venuta con noi a Roma».


Marica invece si definisce «una giovane moglie» ed è la prima volta nella sua vita che non ha nessun contatto col suo compagno, Giacomo Giacalone, capitano della nave Anna Madre, che è riuscita a fuggire dall’arresto. «Mio marito in quanto capitano è stato preso dalle motovedette libiche ma il suo peschereccio è riuscito a fuggire e tornare a Mazara, insieme a un secondo», racconta sconfortata. Marica, 27 anni, ha una bimba di un anno e due mesi che spesso in questi giorni rimane con la nonna mentre lei fa i turni insieme alle altre famiglie perché ci sia sempre qualcuno in aula consiliare. «Mio marito ha 32 anni e va in mare a pescare da quando ne aveva 12, rinunciando alle estati di divertimento, ha iniziato a fare il pescatore. È la mia famiglia: e io e mia figlia siamo la sua famiglia. Non lo sento dal giorno del sequestro. È il periodo più lungo della mia vita, questo silenzio mi sta uccidendo, ci sta uccidendo. Spero che almeno lui senta la forza del nostro amore da lontano».

La storia dei pescatori della flotta di Mazara del Vallo e dei sequestri a largo della Libia ha però più anni di Naoires e Marica. Era ancora al potere il colonnello Muammar Gheddafi quando Mimmo Asaro con il suo peschereccio Osiride si trovava in acque internazionale, cinquanta miglia nautiche a est di Misurata. Era la mattina del 22 marzo 1996. «Verso le sette si avvicina un mezzo militare. Per la paura abbiamo provato a scappare. L’inseguimento è durato quattro-cinque ore con colpi di mitragliatrice dietro di noi. La pancia della nave dove si proteggevano gli altri marinai era tutta bucata. Una scheggia mi ha sfiorato la testa. Ci siamo dovuti fermare. Sono saliti a bordo dicendo di voler fare solo un controllo. Ma poi siamo rimasti in carcere per sei mesi».
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In una stanza insieme ad altri 150 carcerati con un solo bagno, Mimmo Asaro non ha perso solo 22 chili in Libia. È tornato in Italia ricevendo la grazia del colonnello Gheddafi “per buona condotta” ma senza il peschereccio costruito dal padre nel 1974. «Da noi i pescherecci sono come i figli. Fonte di lavoro, di vita. Per mio padre è stato un duro colpo, è caduto in depressione. Io sono diventato diabetico». Ma la famiglia non si è arresa. Mimmo ha venduto la casa per comprare un altro peschereccio dopo qualche anno. La storia si ripete nel 2010 con un inseguimento, uno speronamento e l’equipaggio molto spaventato. «Ma quella volta siamo riusciti ad arrivare a 74 miglia a nord della Libia e ci hanno lasciato andare».

Secondo una decisione unilaterale nel 2005 la Libia ha dichiarato diritti esclusivi di pesca fino a 74 miglia dalle proprie coste, estese dalle 12 riconosciute dal diritto internazionale. Questo porta a considerare illegali le attività di pesca di pescherecci stranieri, come quelli della flotta di Mazara. Ma già prima del 2005 Gheddafi voleva far valere la sua legge. Negli ultimi 25 anni oltre 50 sequestri, 5 morti, milioni di euro di multe e la perdita di pescherecci non lasciano dubbi a Mimmo Asaro: «Questa è una guerra del Mediterraneo: è la guerra del pesce. Fino a che il governo italiano e l’Unione europea non si renderanno conto della partita in gioco, continueranno ad avvenire sequestri in acque internazionali e ci saranno i nostri fratelli marinai in prigione in Libia. Nessun governo ha capito a fondo il dramma di Mazara».

L’ultimo episodio in cui è stato coinvolto col suo peschereccio ed il suo equipaggio risale al 2012. Sono rimasti a Bengasi 56 giorni. Secondo la sentenza del Tribunale Militare che li ha giudicati il peschereccio poteva liberamente tornare a Mazara, dopo aver pagato una multa. «Ma le milizie al porto di Bengasi hanno portato via tutta l’attrezzatura. Ci hanno lasciato solo il motore», conclude Mimmo. Il loro sconforto è grande tanto quanto i decenni di storia di pesca nel Mediterraneo che li precedono. E che rischia di morire, per la paura dei sequestri e le grosse perdite economiche.

Questa volta però le cose sono più complicate del previsto. Il generale Haftar avrebbe chiesto in cambio della liberazione dei pescatori la libertà per quattro cittadini libici, calciatori di professione nelle squadre principali di Bengasi. Almeno fino all’agosto 2015, quando insieme ad oltre 350 rifugiati si sono messi in mare verso l’Italia cercando di proseguire la carriera calcistica lontano dalla guerra civile. Durante il viaggio, 49 delle persone a bordo, stipati nella stiva dell’imbarcazione di legno, sono morti asfissiati.

Secondo alcuni testimoni, i giovani libici erano posti a controllo della stiva e insieme a due cittadini marocchini sono stati arrestati e condannati dai 20 ai 30 anni di carcere per traffico di essere umani. Per i familiari si tratta di un errore giudiziario: «I nostri figli e nipoti hanno pagato il viaggio come gli altri. Purtroppo alcune delle persone a bordo sono morte. Ma non ne sono responsabili i nostri calciatori. Volevano raggiungere la Germania perché in Libia non potevano più allenarsi e giocare con le loro squadre con cui avevano dei contratti regolari. Abbiamo rispetto per la magistratura italiana, ma vorremmo che il caso venisse rivisto», dichiara da Bengasi la dottoressa Ibtisam Faraj, la zia di uno dei quattro calciatori, Abdelkarim Hamad Faraj. Anche uno dei suoi fratelli, Saif, afferma di essere sconvolto dalla storia di suo fratello: «Non riesco a credere che mio fratello sia in carcere in Italia da cinque anni. Abbiamo fatto diverse manifestazioni al porto di Bengasi per non farli dimenticare». La difesa ricorrerà in Cassazione.

Per l’armatore dei pescherecci, Marco Marrone, «le due vicende non hanno alcun legame. I nostri pescatori sono vittime di un sequestro in acque internazionale come succede da troppi anni, ma questa volta non so perché sta diventando un caso diplomatico». Il governo di Tripoli riconosciuto dalle Nazioni Unite, presieduto da Serraj, sembrerebbe rimanere fuori dalla vicenda. Mentre Haftar, suo nemico nella Libia orientale, potrebbe usare il caso per fare pressione sull’Italia. Se i pescatori verranno giudicati da un tribunale militare a Bengasi i tempi per il ritorno a casa potrebbero dilatarsi ulteriormente.

Suor Alessandra dell’associazione Casa Speranza di Mazara ha tra i suoi ragazzi tanti dei figli dei marinai che fanno il doposcuola. «La situazione è molto tesa, diversi familiari sono stati male e sono finiti in ospedale. Queste giovani donne sono forti, sostengono le mamme, si occupano dei figli, ma ora sono molto stanche», conclude. Marica è più angosciata che stanca: «Andare a mare non è una passeggiata, è un sacrificio. Abbiamo un nostro rito ogni volta che parte per il mare. Io lo accompagno e gli dico: Ja’, il vero marinaio si vede nelle lunghe tempeste. Poi ci diamo un bacino e se ne va». Questa volta però non è ancora tornato dalla lunga tempesta.

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