A quarant'anni dalla scossa, un poeta torna nei luoghi della tragedia che ha vissuto quando aveva vent'anni. E che sopravvive in lui come nei paesi che, malgrado la ricostruzione, non si sono più ripresi
La strada verso casa scorre su un altopiano pieno di pale eoliche. Il cielo dell’Irpinia è mutevole e bellissimo. Il cielo è uno dei pochi motivi per cui restare qui. Ora hanno un respiro rassegnato questi paesi. Non sono più luoghi del sangue, non ci sono più alberi e volti segreti, e non c’è più una morte che sia solenne, sembrano morire come foglie, come semplici conseguenze di un affanno. E comunque belle o brutte che siano le vicende di questi luoghi ormai hanno poco a che fare con chi pensa ancora di guidarli. Nessuna vergogna ho mai visto sul suo volto. Ha un nome e un cognome e non importa che ha fatto, chi è stato. Chiamatelo passato.
Il terremoto, invece, pare ancora una vicenda viva. Il buio arrivò di slancio e ci mise al tappeto. Perfetto gancio. Era il 23 novembre 1980. A quel tempo avevo vent’anni. Non avevo mai pensato di andare via. E sono ancora qui e ogni tanto vado a trovare questi paesi come si va trovare un vecchio zio.
Oggi vado a Guardia Lombardi in un pomeriggio invalido. Il paese è muto, parla la lingua delle porte chiuse. È un linguaggio ormai solenne e se vedi una ragazza che passa dentro queste strade ti sembra quasi un disturbo.
Mi sposto a a Sant’Angelo dei Lombardi. Questo è il paese dove il terremoto fece più morti. Qui il passato oscura il presente. Senti che la cosa che doveva succedere è successa, è un paese postumo.
La ricostruzione è finita ed è finito pure il paese. Questo è il verdetto sbagliato che mi si forma nella mente. Le case sono grandi, spesso sono anche belle case, è come se fossero al loro posto non per essere abitate, magari c’è pure qualcuno dentro, ma il soggetto sono le mura, le ringhiere, le finestre. Il materiale edile sembra più forte del materiale umano. Anche questa è un’apparenza: il mondo sta finendo e sta guarendo ovunque, aspetta solo di essere abitato diversamente.