Le proposte avanzate dalle associazioni giovanili neanche ottengono risposte dalle istituzioni. Ma come possiamo puntare a una ripartenza senza coinvolgerli?

Enrico Giovannini
Le imprese italiane sono note per rispondere solo raramente alle lettere con cui i giovani e le giovani presentano la propria candidatura per una possibile assunzione, mentre all’estero è il comportamento normale. Ora, sappiamo che questo modo di fare è indotto da un virus nazionale che ha colpito anche il Governo, e non in riferimento ad autocandidature per un posto di lavoro, ma alle proposte avanzate da un’ampia rete di associazioni giovanili che avevano passato l’estate a pensare al futuro del nostro Paese. Infatti, come l’articolo di Gloria Riva descrive, Rete Giovani 2021 - una rete di oltre 70 associazioni giovanili - non ha ricevuto alcuna risposta dall’esecutivo, neanche di cortesia, sulle proposte avanzate e questo si intona decisamente con l’idea che il Paese sia culturalmente incapace di mettersi dalla parte dei giovani che forma, compresi quelli molto qualificati che hanno redatto le proposte. Ma questa non è una novità, purtroppo.

Ricordo che vari anni fa, nel corso di un dibattito in Confindustria, un personaggio di spicco dell’epoca, dopo un’approfondita analisi propose di ridurre i salari d’ingresso per far ripartire il settore dei servizi. Gli chiesi se quindi, visto che tale salario era di 500 euro mensili - in pratica il costo di uno stage - intendesse proporre che fossero i ragazzi a pagare le imprese per lavorare, ma alla provocazione non riuscii ad ottenere una risposta. Da allora la situazione è peggiorata, al punto tale che - secondo l’indagine Istat del 2018 - i dottori di ricerca che vanno all’estero guadagnano mediamente mille euro al mese in più di quelli che lavorano in Italia, un valore doppio rispetto a quello registrato nell’indagine del 2014.

Insomma, come indicava il film di Giovanni Veronesi, l’Italia continua a non essere un Paese per giovani, anche se - a credere al tono del dibattito politico sulla pandemia - non è che gli anziani siano trattati molto meglio. Al di là delle battute, l’impatto della crisi è molto diseguale. Ad esempio, essa colpisce i redditi degli anziani in modo nettamente inferiore a quelli dei giovani e dei giovani-adulti, cioè di chi insieme alle donne paga il prezzo più alto della pandemia, anche a causa della mitica flessibilizzazione del mercato del lavoro. E non sarà l’ennesimo intervento di defiscalizzazione per l’assunzione di giovani e donne a cambiare radicalmente la situazione, visto che ciò che manca e mancherà nel prossimo futuro è proprio l’attitudine delle imprese ad assumere.

E allora? E allora non si può disegnare il futuro di una generazione come quella dei nostri giovani, cioè della generazione più istruita e competente che questo Paese abbia mai avuto, senza coinvolgerla direttamente nella discussione. Anche perché proprio i giovani hanno avuto negli ultimi due anni un ruolo straordinario nella svolta ecologica delle opinioni pubbliche mondiali e nei comportamenti collettivi. E si vincono e si perdono elezioni su questi temi, come dimostrano anche gli Stati Uniti. E si cambiano le strategie delle aziende automobilistiche, delle imprese energetiche in nome della sostenibilità. E mutano le scelte dei grandi fondi di investimento internazionali. E si cambiano le abitudini di consumo e di risparmio. E si riorientano le politiche a favore dello sviluppo sostenibile, come l’Unione europea ha fatto.

Così come, nel secondo dopoguerra, le politiche economiche di tanti Paesi occidentali furono orientate alle classi medie anche per compensare le generazioni giovani che avevano sostenuto lo sforzo bellico a beneficio di tutti, vogliamo riconoscere o no che senza i giovani staremmo ancora a discutere vecchi temi del Novecento? Il filosofo Luciano Floridi sostiene che, come il XX secolo partì con 15 anni di ritardo con la prima guerra mondiale, anche il XXI secolo stia di fatto iniziando solo ora, con la pandemia. Mi sembra un modo interessante di porre la questione, che impone all’Italia di entrare nel nuovo secolo scegliendo di dare fiducia alle giovani generazioni.

Concludendo il mio contributo dedicato alla giustizia tra generazioni pubblicato nel volume “Il mondo dopo la fine del mondo”, edito da Laterza, scrivo: «Sono sicuro che, leggendo queste righe, alcuni diranno che tutto questo è un’utopia. Ebbene, invito costoro a riflettere su una frase detta da un famoso conferenziere americano, Alan Parisse: “La vecchiaia comincia nel momento in cui il tuo attaccamento al passato supera la tua eccitazione per il futuro”. E li invito a riflettere se non sono troppo vecchi per costruire il mondo di cui abbiamo bisogno. Nel qual caso, sono pregati di godersi la vecchiaia e lasciare ai giovani, indipendentemente dalle loro età anagrafica, il campo da gioco».