Politica
novembre, 2020

"L'italiano parlato dai politici fa venire l'otite"

Strafalcioni, errori da penna rossa, ecceso di anglismi. E poi le parolacce e i social. L'accademico Francesco Mercadante, autore del saggio "Grammatica umoristica", analizza la lingua usata dalla classe dirigente (e da chi la vota)

“A me viene già l'otite a sentire i politici, ma transeat! Sono politici. Dichiarare di essere scrittore sul proprio profilo e non saper mettere un congiuntivo al posto giusto equivale a uscire da casa con le orecchie da asino.” Non usa mezzi termini lo scrittore e accademico Francesco Mercadante che nel suo saggio "Grammatica Umoristica" affronta con sarcasmo l’utilizzo improprio della lingua e della grammatica italiana. Un saggio che nasce dalla consapevolezza del grande potere del linguaggio «che ha un peso enorme, può fare innamorare, può distruggere come è accaduto nella storia. E molte volte non ce ne rendiamo conto, questa è l’aspetto più preoccupante».

Come è cambiata la lingua italiana con l’avvento dei social come strumenti di comunicazione?
Il cambiamento è stato radicale anche se non ancora avvertito, nel senso che non se ne è percepito il disagio. Oggi, all’interno di quello che ho tentato di definire wikiacculturamento, profili scuri e ambigui, che costituiscono la maggioranza del popolo del web, si rifanno a un inglese che essi stessi non conoscono. Ne esce una lingua ambigua che forse potremo conoscere meglio solo tra un decennio.

In questa fase evolutiva qual è il nuovo profilo dell'ignorante medio?
Nel primo periodo del cosiddetto web 2.0 molti soggetti, pressoché non qualificati, hanno pensato di potersi riscattare autoproclamandosi, utilizzando etichette inglesi: gli anglismi, per usare il giusto termine tecnico. Tutto questo è accaduto attraverso una vera devianza linguistica, cioè attraverso l’utilizzo quasi ossessivo degli anglismi. Si è creata una sorta di “sacca di resistenza” e definirei l’ignorante medio come colui che si rifugia in descrizioni inglesi improprie.

Perché sono i politici a detenere il primato per l’utilizzo improprio della lingua e della grammatica italiana?
Perché sono molto esposti e quanto più si è esposti tanto più si corre il rischio di commettere un errore. Il capitolo zero del mio libro è dedicato a Luigi Di Maio. Leggo un frammento, 11 Gennaio 2018, parole di Di Maio con tanto di virgolette: “Io da sempre ho sempre detto che il movimento ha sempre detto che noi volessimo fare un referendum sull’euro”. Sono parole di chi oggi è Ministro degli esteri e tutto questo diventa certamente caustico ma nello stesso tempo preoccupante. Renzi invece utilizza la tecnica della vacuità. Tuttavia, nel periodo in cui era Presidente del Consiglio, un tweet estremamente vacuo gli faceva guadagnare migliaia di retweet. A questo punto bisogna chiedersi perché l’utente ha bisogno della vacuità e perché a seconda del modo in cui le cose si raccontano cambia il senso della narrazione. Il linguaggio ha un peso enorme, può fare innamorare, può distruggere come è accaduto nella storia. E molte volte non ce ne rendiamo conto, questa è l’aspetto più preoccupante.

I politici comunicano anche attraverso Twitter. Esprimersi con tweet di soli 280 caratteri condiziona un uso improprio del linguaggio?
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Rispondo con l’aneddoto della Sibilla che è stato il primo esempio di politichese. Nella frase “andrai, ritornerai non morirai in guerra” pronunciata dalla stessa, la posizione di una semplice virgola può cambiare totalmente il significato. Oggi invece i politici utilizzano la tecnica della vaghezza e lasciano che siano gli utenti a fare la deduzione. E la gente, da parte sua, non richiede lo stesso impegno ai rappresentanti politici. È come se oggi il parlante italiano non chiedesse uno sforzo linguistico, e dunque di contenuto, al politico.

La vaghezza può includere un linguaggio che tenta di colpire il sentiment dell’utente tergiversando sulla ricezione del reale contenuto di un messaggio.
Non credo ci sia un passaggio emozionale. Nell’ultimo periodo si è forse generato il più grande equivoco nella storia dei media: si era convinti che i social avrebbero ridotto le distanze tra emittente e ricevente, in realtà le hanno aumentate notevolmente. Nelle pagine Facebook dei grandi giornali italiani a un articolo che suscita interesse, seguono migliaia di commenti, ma nessuno dei social manager dei giornali risponde. Non esiste l’interazione, non si è compresa la distinzione fondamentale tra comunicazione e informazione. L’informazione è un processo unilaterale. Anche la tabella degli orari dei treni è informazione. Il linguaggio dell’informazione è sempre dittatoriale e il nuovo linguaggio è quello della totale asimmetria.

Nel saggio evidenzia che la parolaccia non è propriamente elusa dalla buona grammatica. Nel mondo dei social può essere un punto di forza per la comunicazione?
Sì, può arricchire il linguaggio, può essere il sale del linguaggio. Tutto è legato a chi utilizza un termine come questo e al modo in cui lo utilizza. Inoltre, il linguaggio dei social è il linguaggio della concelebrazione e in questa concelebrazione dobbiamo smetterla di condannare la parolaccia. Se imparassimo invece a valutare i contenuti, molto probabilmente le cose cambierebbero, chiederemmo anche ai nostri politici un impegno diverso.

Quindi politici e giornalisti potrebbero ricorrere all’utilizzo della parolaccia. Non dovremmo stupirci di questo?
Io non mi preoccuperei della parolaccia, l’utente medio è affascinato dalla parolaccia. Abbiamo esaltato chi ha creato un proprio personaggio, soprattutto nella prima parte della loro carriera e la gente se ne è appassionata. Il fenomeno Sgarbi, ad esempio, consacrato come altri per l’uso della parolaccia. Ma quando questo diventa smodato diventa deprecabile.

Perché ha scelto di affrontare questa  tematica con ironia?
Perché speravo di avvicinare la gente alla lingua senza annoiarla con griglie, tabelle e regolette che sono tuttavia necessarie, perché la grammatica è basata su delle norme: la grammatica è normativa, anche se qualcuno sta pensando di fare delle innovazioni clownesche. Nel libro mi sono astenuto dallo scrivere regolette in forma classica e manualistica. È diventato un intrattenimento e l’ironia non può non essere pungente.

Una “provocazione” per un linguista come lei: meglio un congiuntivo sbagliato alla Di Maio o un abuso di nonsense stile Renzi?
Alla provocazione rispondo: meglio la tabella degli orari dei treni.

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