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2020, fuga dalle metropoli. La carica dei city quitter in cerca di natura e Web ultraveloce

Fabrizio Favaro con la moglie e i figli nati a Ostana (CN). Piccolo comune della valle Po, noto per il progetto di recupero e di  riqualificazione del patrimonio architettonico storico.
Fabrizio Favaro con la moglie e i figli nati a Ostana (CN). Piccolo comune della valle Po, noto per il progetto di recupero e di riqualificazione del patrimonio architettonico storico.

Studenti, professionisti in smart working, famiglie. Lasciano Milano, Roma, Bologna, Torino, diventate troppo costose, affollate, insicure. E riprogettano la vita lontano dalle grandi città. Ma non sempre la tecnologia aiuta (Michele D'Ottavio per L'Espresso)

Fabrizio Favaro con la moglie e i figli nati a Ostana (CN). Piccolo comune della valle Po, noto per il progetto di recupero e di riqualificazione del patrimonio architettonico storico.

Mentre la cartina dell’Italia volge al rosso, le metropoli diventano sempre meno vivibili. Troppo affollate, insicure, costose. Un fenomeno globale, come dimostra la fuga in massa da Parigi alla vigilia del nuovo “confinement”, con le auto in coda a passo di lumaca per 700 chilometri. Se in Francia l’argomento ha assunto dimensioni tali da meritare la copertina del settimanale Le Nouvel Observateur, anche in Italia in tanti si dichiarano pronti a lasciare le grandi città per andare a vivere in campagna, in abitazioni più spaziose, magari con orto e giardino. In molti lo hanno già fatto, altri sono in procinto di farlo, altri ancora ci stanno pensando sulla spinta del nuovo semi-lockdown. Si tratta di una scelta radicale, non una scappata nelle seconde case. Cominciano a registrare la tendenza anche le agenzie immobiliari e le statistiche, in controtendenza rispetto allo spopolamento delle aree interne, che negli ultimi cinque anni hanno perso ulteriori 250mila residenti.

Intanto si moltiplicano le soluzioni per portare il Web nelle zone remote, la vera scommessa per il cambiamento. Nelle aree rurali, infatti, il divario digitale è ancora molto profondo: secondo l’Istat, nei comuni con meno di duemila abitanti quasi una famiglia su tre non viene raggiunta dalla banda larga. Da qualche giorno, inoltre, è attivo il voucher fino a 500 euro, destinato dal governo a chi ha un reddito inferiore a 20mila euro, per l’acquisto di Internet a banda ultralarga e un tablet o pc.

Un tema cruciale, quello della connessione veloce: c’è chi scommette, infatti, che dopo l’uscita dal tunnel del virus nulla sarà più come prima. Lavoratori in smart working, coppie con o senza figli, giovani famiglie, studenti universitari, professionisti ingrossano le fila di chi dice addio a Roma, Milano, Torino, Bologna, Napoli. Ma i “city quitter” che abbandonano le grandi città, come li definisce l’etnografa londinese Karen Rosenkranz nel suo libro pubblicato da Frame, non hanno a che fare con i neo-contadini che scalpitano per imbracciare una zappa, affondare le mani nella terra o mungere una mucca. Chi lascia le metropoli, paradossalmente, non rifiuta lo stile di vita urbano ma desidera vivere in un contesto più rilassato, a contatto con la natura. E, fattore cruciale in tempi di Covid, in un ambiente più distanziato.
Il centro culturale Lou Pourtoun nella Borgata Sant'Antonio di Ostana (CN), piccolo comune della valle Po, noto per il progetto di recupero e di riqualificazione del patrimonio architettonico storico.

Stanno per fare il grande salto Massimo Tomasi, 55 anni, e Giulia Rapaggi, di due anni più giovane, quattro figli e tre cani. Da un appartamento di 60 metri quadrati in un condominio a Casal Bernocchi, periferia sud di Roma tutta asfalto e cemento, a una villetta con giardino a Poggio Nativo, in Sabina, una cinquantina di chilometri a nord della capitale. Dopo aver venduto la casa di Roma, a gennaio stipuleranno il rogito notarile e si trasferiranno per sempre. «Dalle finestre vediamo campagna, colline e uliveti a perdita d’occhio», dice Tomasi, che di mestiere fa il tecnico informatico e viaggia spesso per lavoro. Secondo l’ufficio studi del portale immobiliare Idealista la provincia di Rieti, dove si trova la campagna sabina, è tra quelle che da gennaio a oggi hanno registrato il maggior incremento di richieste di abitazioni in vendita, dopo Barletta-Andria-Trani e prima di Agrigento.

Per facilitare l’incontro tra domanda e offerta un gruppo di agenti immobiliari ha creato la community virtuale “Vivere in campagna”, che conta 8mila iscritti. «Dopo la prima chiusura totale la richiesta si è impennata, i social fanno da acceleratore», dice Andrea Giulivi, uno dei fondatori. La decisione della coppia di romani era matura, più o meno, ma la pandemia è stata determinante. Da marzo a luglio Giulia Rapaggi ha lavorato in smart working come contabile in uno studio di commercialista, poi si è dimessa e adesso è impiegata nel magazzino Amazon a Passo Corese, a una manciata di chilometri dalla nuova villetta. «Il Covid ha fatto traboccare il vaso. Il nostro appartamento era troppo piccolo, la reclusione forzata è stata pesante anche se ci vogliamo bene. L’idea di andare a vivere in campagna è una liberazione», dice la donna, contando i giorni che mancano al trasloco.

A fare la differenza, per chi va in affitto o deve comprare casa, è il costo della vita e il prezzo al metro quadrato. Sotto questo aspetto Bologna non fa eccezione, per molti studenti universitari trovare una camera in affitto è diventata una chimera. In epoca di pandemia, inoltre, un appartamento da condividere con sconosciuti può trasformarsi in un focolaio. Già l’anno scorso Alessandro Santoni, sindaco di San Benedetto Val di Sambro, piccolo comune dell’Appennino bolognese, per fermare l’emorragia di residenti aveva avviato un progetto in collaborazione con l’università del capoluogo emiliano e Er.Go., l’agenzia regionale per il diritto agli studi. In sostanza, un contributo economico per gli studenti, Imu scontata per i proprietari e un’auto a disposizione degli affittuari per gli spostamenti.
"La casa sull'albero" in costruzione a Ostana (CN). Il piccolo comune della valle Po, noto per il progetto di recupero e di riqualificazione del patrimonio architettonico storico.

Finora si sono trasferiti in venti, italiani e stranieri: Alan Jendi, 27 anni, all’ultimo anno di Ingegneria civile, fino a pochi giorni fa abitava in pieno centro a Bologna, dove ha trascorso gli ultimi cinque anni come studente universitario e rifugiato politico. Cresciuto a Kobane, la città siriana simbolo della resistenza curda contro l’Isis, Jendi approdò in Italia nel 2015 perché in Siria è perseguitato per le sue idee contro il regime di Bashar al-Assad. «Trovare una stanza a Bologna è diventato impossibile, gli appuntamenti con i proprietari di casa sembrano colloqui di lavoro. Qui paghiamo 230 euro in tre, lì con gli stessi soldi non prendi neanche uno sgabuzzino», dice dal suo nuovo appartamento in una frazione della cittadina emiliana, che condivide con uno studente libanese e uno turco. Per mantenersi lavora come rider e mediatore culturale.

«Bologna per molti aspetti è più comoda ma in collina ci sono meno contagi, noi tre viviamo in una specie di lockdown, ci sentiamo più sicuri», aggiunge lo studente, che segue i corsi online di Ingegneria e nel tempo libero va in bici sui colli: «Le lezioni in presenza sono un’altra cosa, ma con la mascherina sarebbe un incubo. In emergenza si può fare», conclude Jendi.

La vita in campagna e in montagna, tuttavia, non è tutta rose e fiori. La rete dei servizi - trasporti, scuole, ospedali, uffici postali - in molte zone è inefficiente. Inoltre, non tutti possono permettersi di avere un lavoro “mobile” o allontanarsi dalle metropoli. In Italia sono ancora molte le aree non coperte dalla connessione ultraveloce anche se le soluzioni non mancano, come dimostra il caso di Eolo.

Sta facendo soldi a palate l’operatore di telecomunicazioni che porta la banda ultralarga via radio nei piccoli Comuni, per privati e imprese. Sull’onda della pandemia, i ricavi del primo semestre del 2020 sono cresciuti del 23 per cento rispetto allo stesso periodo del 2019, pari a oltre 91 milioni di euro. E la società, che a maggio ha annunciato un investimento di 150 milioni per ridurre il divario digitale, negli ultimi sei mesi ha coperto altri 375 Comuni (ora sono in tutto più di 6.300), soprattutto nel Mezzogiorno dove la domanda è in forte crescita.

«Ieri ho sentito il sindaco di Valleve, in molti lo chiamano perché vorrebbero trasferirsi da Milano ma non sanno se la zona è ben collegata via Internet», dice Giacomo Biraghi, 43 anni, nato e cresciuto nel capoluogo lombardo, esperto di strategie urbane e condirettore di “Utopian Hours”, il festival internazionale sulle città ideato e organizzato da Torino Stratosferica, che si è svolto lo scorso ottobre nel capoluogo piemontese, dal titolo “The City at Stake”, la città a rischio. L’occasione per riflettere sulle metropoli e la loro vulnerabilità insieme a esperti, urbanisti, architetti visionari. Tra gli argomenti di discussione la fuga dalle metropoli, le aree interne e la campagna, le città sull’acqua e quelle a misura di donna, la mobilità del futuro e le nuove strategie di sviluppo del territorio.

Anche Biraghi è un “city quitter”: fino a febbraio abitava in affitto sui Navigli insieme alla moglie olandese Lonnie, poi hanno mollato tutto e si sono trasferiti a Valleve, un paesino di 130 abitanti a 1.700 metri di altitudine, in provincia di Bergamo. «La pandemia non era ancora scoppiata ma il meteo lasciava presagire il peggio», dice Biraghi, che dalle finestre vede montagne e impianti da sci. Ora che la Lombardia è in zona rossa, riflette sulla sua scelta: «Sono ancora più convinto», dice guardandosi intorno: «Oggi c’è un silenzio assoluto, nessuno in giro. Uno scenario post-nucleare».

Una decisione definitiva, ma Giacomo non intende tagliare il cordone ombelicale con la metropoli lombarda. «Quando ce ne siamo andati ho pensato: grazie alle tecnologie posso lavorare in smart working, abitare in montagna e mantenere il mio stile di vita urbano. Anzi, qui paradossalmente mi sento più cittadino che a Milano», prosegue Biraghi, che inquadra la propria esperienza in un contesto ampio: «In Italia un centinaio di Comuni sotto i 5mila abitanti si trova a un’ora al massimo da un aeroporto internazionale o da una grande città. Sono destinazioni ideali per i “city quitter”», conclude.

A parole sembra semplice, in realtà per invertire il destino di un luogo spopolato servono investimenti, energie, progettualità. Di recente il Consiglio nazionale degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori (Cnappc) e l’Unione nazionale comuni, comunità, enti montani (Uncem) hanno firmato un accordo per sollecitare un piano urgente per recuperare e riabitare borghi delle Alpi e degli Appennini. Negli oltre 5.500 piccoli Comuni d’Italia, infatti, hanno calcolato che ogni due case occupate ce n’è una vuota. Le opere di adeguamento potrebbero valere due miliardi di euro e decine di migliaia di posti di lavoro.

Paesini e borghi come Ostana, nell’alta Valle Po, dove un secolo fa abitavano 1.200 persone. Poi è iniziato il progressivo declino fino al minimo storico, intorno al Duemila: appena sei residenti. Aveva già preso il via il recupero degli edifici, grazie alle politiche pubbliche e all’intervento di un team del Politecnico di Torino: oggi le borgate del piccolo comune della provincia di Cuneo, affacciato sul Monviso, sono abitate tutto l’anno da 60 residenti, tra cui alcuni bambini. Sull’onda dell’emergenza coronavirus altri stanno pensando a stabilirsi da queste parti. Tra i promotori della rinascita Massimo Crotti, architetto, docente al Politecnico di Torino, che ha progettato insieme a Antonio De Rossi e Marie-Pierre Forsans il centro culturale Lou Pourtoun. «Intorno a Ostana c’è un interesse crescente, ma per rilanciare la montagna occorre uscire dall’idea nostalgica del ritorno alla terra e reinterpretare il progetto in chiave contemporanea. Far incontrare le persone e ibridare i saperi», dice l’architetto.

Così hanno fatto Fabrizio Favaro, 39 anni, e Michela Chiri, 36, genitori di Bruna, quattro anni, e Mario, uno e mezzo. Da Chieri, comune dell’hinterland di Torino, si sono trasferiti in una villetta con orto e giardino a Serre, borgata di Ostana, lontani da tutto, a più di un’ora di auto dal capoluogo piemontese. «Ci attirava l’idea di una vita lontana dallo stile urbano, far crescere i figli in un ambiente naturale. È stata una trasformazione radicale», riflette Favaro, che fa l’agente di commercio nel settore dei vini, mentre la moglie insegna in una scuola dell’infanzia. Non hanno la tv, si collegano alla Rete attraverso gli hotspot dei cellulari, ma come gli altri “city quitter” nessuno dei due ha imbracciato la zappa e affondato le mani nella terra. «Abbiamo vissuto il primo lockdown in modo sereno, in città sarebbe stato diverso. Finora ci è andata bene, adesso vedremo. I bambini vanno a scuola, mia moglie continua a insegnare perché le scuole restano aperte anche in zona rossa», conclude Fabrizio: «Il mio lavoro con bar e ristoranti è fermo, ma almeno c’è il sollievo psicologico di vivere in questo ambiente meraviglioso. La pandemia ha rafforzato la nostra scelta».

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