Iniziano a lavorare mentre gli altri ancora dormono e la loro attività può protrarsi fino al pomeriggio inoltrato, anche il doppio del tempo ufficiale. Se si fermassero, in blocco, per un giorno, si bloccherebbe l’intero paese. Sono un esercito invisibile di circa 600 mila operatori. Per il 70 per cento, donne. E guadagnano pochissimo.
Secondo Indeed, il motore di ricerca per trovare lavoro, il loro stipendio medio è di 667 euro. Una cifra suffragata dalle tabelle contrattuali: il salario d’ingresso si aggira sulle 600 euro e a fine carriera, con in tasca il titolo di “dirigente”, si guadagna poco più del doppio. Eppure stanno sempre lì a spaccarsi la schiena, con il gelo o col caldo torrido, le addette e gli addetti alle pulizie che disinfettano e rendono più igienici e vivibili, senza requie, i nostri ambienti lavorativi e di vita. Impegnati quasi di nascosto negli uffici, nelle scuole, nelle università, nelle banche, nelle fabbriche, nei supermercati, nelle case di riposo, nei condomini, nei centri commerciali, negli enti locali, nei musei, sui mezzi di trasporto, nelle carceri. E negli ospedali: almeno il coronavirus avrebbe dovuto rendere di dominio pubblico il loro sacrificio quotidiano. Ma così non è stato.
È da fine febbraio che sono in prima linea contro la pandemia. Sono proprio loro gli artefici della sanificazione costante delle corsie ospedaliere, dei pronto soccorso, delle stesse terapie intensive e Covid Hospital. Qualcosa di imprescindibile, un supporto prezioso e tangibile all’azione di medici e infermieri. In primavera vennero gettati allo sbaraglio, con dispositivi di protezione insufficienti e a singhiozzo, e in questi mesi hanno visto dritto in faccia questo mostro subdolo, imparando a convivere con la paura e l’angoscia. E in parecchi si sono contagiati, non pochi sono morti. Il 27 ottobre, al Cardarelli di Napoli, è deceduto a causa del virus Mimmo Scala, un addetto alle pulizie di 55 anni. Non aveva patologie pregresse. «Nessuno gratifica il nostro operato, e il nostro coraggio. Nemmeno in questo momento di difficoltà dove molti di noi, me compreso, si sono contagiati in ospedali ad altissimo rischio. Non vogliamo medaglie: pretendiamo solo rispetto, senza essere messi, sempre, alla fine del carro» si è sfogato così su Facebook Francesco, un collega di Mimmo. Come Antonio, che ha sintetizzato: «Per cinque euro l’ora a noi tocca il lavoro sporco». Manca, ancora, all’appello un protocollo di sicurezza anti-covid per il settore. Persino quando si ammalano, in vari casi fino alle estreme conseguenze, sono costretti, insomma, a farlo in silenzio.
Le tre sigle di categoria dei sindacati confederali, Filcams Cgil, Fisascat Cisl e Uil Trasporti, si stanno battendo da mesi per il rinnovo del contratto collettivo nazionale multiservizi, che rappresenta il comparto. Un contratto scaduto sette anni e mezzo fa. Ma le associazioni datoriali hanno alzato un muro alle loro richieste, benché i loro assistiti abbiano visto lievitare le commesse e le relative entrate, grazie al boom della sanificazione. Anzi, tra le loro controproposte l’aumento di una flessibilità già molto sostenuta. Nasce da questi presupposti la manifestazione che si è svolta il 21 ottobre in 49 città collegate, via Zoom, con la piazza principale di Roma, dove ha potuto gridare le proprie ragioni “in presenza” un centinaio di persone. Si reclama, e in tempi brevi, il rinnovo del Ccnl, con adeguamenti salariarli e maggiori diritti e garanzie per una professione sottaciuta e nevralgica. Proclamato lo stato di agitazione. «Non costringeteci, in questo momento d’emergenza pandemica, a dichiarare lo sciopero nazionale del settore pulizie/multiservizi – affermano Claudio Tarlazzi e Marco Verzari, rispettivamente segretario generale e nazionale della Uiltrasporti -. È fondamentale che questi lavoratori, che hanno lavorato in condizioni difficili e continuano a farlo al pari di medici e infermieri, non debbano più vivere al di sotto di una sussistenza dignitosa».
Ma il problema è che, per assurdo, i titolari del predetto contratto nazionale sono un’elite di “garantiti”, perché quello delle addette/i alle pulizie è un sottobosco rigoglioso e sfuggente di sfruttamento e precariato. Nonostante sia lo Stato, che si gira dall’altra parte, il suo maggior committente. Un mondo di sotto dove imperversa il far west contrattuale: si contano decine e decine di contrattini di comodo, se non fittizi, intrecciati da microsindacati usa-e-getta schiacciati sulle posizioni “padronali”. Così come esiste una gragnuola di tipologie di aziende di pulizie: dalle grandi società alle piccolissime ditte individuali, passando per le associazioni temporanee di impresa e le cooperative. E sono numerosi i somministrati dalle agenzie interinali. Prolifera il lavoro nero. La meno tutelata, alle solite, è la manodopera straniera. Si può anche esercitare il mestiere come libero professionista a partita Iva. E chi è assunto a tempo indeterminato lo è in una maniera un po’ anomala.
Uno dei difetti calcificati dell’ingranaggio è, infatti, il ricorso capillare e opportunistico al cambio di appalto. Accade questo: gli operatori lavano, strofinano e sanificano, sovente per un grosso committente, portando a casa un compenso semi-accettabile. Ma a un certo punto l’appalto è esaurito, viene meno, e allora sono destinati a una nuova realtà. Solo che per vincere la connessa gara d’appalto, la società o la cooperativa da cui sono stati assunti gioca la carta dell’offerta al massimo ribasso. Che è la controversa strada maestra, la strettoia per spuntarla sui concorrenti. E questo comporterà, per le maestranze, uno stipendio fortemente ridotto, coniugato a una crescita esponenziale delle ore lavorate sottobanco.
Se è vero che la ditta che si aggiudica un appalto (applicando il contratto in discussione in queste settimane) si impegna, al termine dello stesso, a mantenere in organico gli assunti, è sulle buste paga che interviene per non veder diminuire i propri profitti. Si taglia il costo del lavoro, li si fa lavorare di più. Gli accrediti bancari precipitano: 3, 4, 500 euro al mese, e guai a lamentarsi. Il part-time forzato diventa una delle regole. Ogni volta che scade un appalto, tabula rasa e si ricomincia daccapo. Contratti capestro. E dopo il decreto Sblocca-cantieri dell’estate del 2019, sono tornati di moda i sub-appalti: un’altra trappola risaputa per i diritti e le retribuzioni. Racconta all’Espresso Marcelo Amendola, segretario nazionale del maggior sindacato di base, il Cub: «Non firmiamo i contratti nazionali di categoria per scelta, perché ogni rinnovo fatto va sempre nella direzione di puntare su un sistema di welfare privato, sanità, pensioni, enti bilaterali, il tutto togliendo risorse dirette ai lavoratori e indirette ai servizi pubblici. E come abbiamo visto nel caso della sanità per la pandemia, nel corso di un’emergenza l'unico apparato che tutela tutti è quello pubblico. Certo, i rinnovi contrattuali sono necessari perché solo così i lavoratori recuperano il potere d’acquisto perduto. Ma il nodo vero viene rimandato di volta in volta».
Per la confederazione unitaria di base sarebbe questo: «Bisogna puntare ad aumenti effettivi e consistenti: la nostra proposta era di 300 euro netti, con riduzione dell’orario a parità di salario e democrazia sindacale diretta uguale per tutti. Per quel che concerne le gare, invece, spazio alla reinternalizzazione dei lavoratori: escluderli dal gruppo portante della manodopera, ossia dalla filiera principale, serve solo ad indebolirne la forza contrattuale e a renderli tutti più ricattabili e meno protetti». Intanto in rete si trovano messaggi di questo tenore: «Per te, tre ore di pulizia e igienizzazione completa a soli 22 euro». Da questa somma, vanno scalati il guadagno della cooperativa e le spese per secchi, stracci, scopettoni, spruzzini, detergenti, mascherine.
Non chiedono ospitate televisive, abituati come sono a lavorare nell’ombra, i cleaners, le cleaners italiane; ma un soprassalto di considerazione e un po’ di gentilezza. Come nel celebre film di Ken Loach, un manifesto, il cielo in una frase: «Noi vogliamo il pane, ma anche le rose».