Anche se hanno riconquistato la Casa Bianca, i dem sono rimasti il partito delle elite e hanno recuperato solo pochissimi voti nella working class bianca. In America come in Europa, non capiscono che il cuore del problema  è la disoccupazione e la caduta del ceto medio

Massimo Cacciari
All’alba del 4 novembre mi trovo a seguire con meraviglia la meraviglia di molti commentatori sull’andamento delle elezioni americane. Trump, sapendo benissimo che tutto si sarebbe giocato oltre il filo di lana, e che comunque il voto popolare sarebbe stato favorevole ai democratici, come già, e anche allora per milioni di voti, nel 2016, aveva per tempo organizzato la sua macchina da guerra e mobilitato preventivamente i settori più estremistici del suo elettorato.

Trump ha annunciato la propria vittoria non solo, come ha fatto, a spoglio in corso, ma in qualche modo prima dell’apertura delle urne, dichiarando che soltanto brogli dell’avversario avrebbero potuto rubargliela! Le armi su cui contava erano palesi: giudici federali da lui eletti, fedelissimi governatori di alcuni Stati, e soprattutto l’attuale composizione della Corte Suprema. Nonché, ovviamente, la presunta debolezza dell’avversario nell’ingaggiare un conflitto istituzionale di queste proporzioni, nell’affrontare uno scontro da “guerra di secessione”.

Richiamare Trump a “codici d’onore”, quelli che bene o male avevano retto le competizioni elettorali precedenti anche in situazioni drammatiche (vedi nel 2000 il duello Bush-Gore), o ricordargli che esistono delle regole per cui tutti i voti sono uguali e vanno scrutinati in base alle norme vigenti nei diversi Stati, mi sembra, nei confronti del personaggio, una predica sprecata.
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Come finirà? Perché Trump, dopo aver trasformato la Casa Bianca in palco di un comizio elettorale, non continuasse la sua campagna, Biden doveva vincere al netto di contestazioni su qualche milione di voti arrivati oltre la chiusura dei seggi. Così non è avvenuto e dubito perciò che il tycoon si faccia da parte prima di qualche feroce combattimento. Speriamo non per piazze e strade.

Molte cose, tuttavia, si possono comunque dire. Anzitutto, che comunque i democratici hanno perso di nuovo. Avrebbero dovuto radicalmente rinnovarsi per affrontare la novità rappresentata, piaccia o no, dal fenomeno Trump. Dall’esperienza della Clinton non hanno tratto invece alcun insegnamento. Si sono ripresentati come il partito dell’establishment e con un candidato rappresentante della “casta” più ancora di Hillary.

Hanno recuperato qualcosa nelle comunità afro-americane, merito della Harris, ma hanno perduto consenso in quelle ispaniche. Nel terremoto della trasformazione in senso multi-etnico della società americana non riescono a muoversi molto meglio del “razzista” Trump. E non hanno recuperato che in misura minima consensi nella working class bianca. È questa una favola che parla di tutte le sinistre e centro-sinistre occidentali; il loro radicamento tradizionale è in crisi ovunque e per ragioni del tutto analoghe: esse hanno subito i processi di globalizzazione, sono rimaste impotenti di fronte alle disuguaglianze che questi andavano producendo e abbarbicate a modelli istituzionali e politiche economiche appartenenti, piaccia o no, a un’epoca conclusa con gli anni ’90 del secolo scorso.

Ci stupiamo che la gestione sciagurata della pandemia abbia nuociuto a Trump in modo così irrilevante? Bisogna davvero abitare in Ztl per meravigliarsene. Chiunque abbia orecchie per intendere, dovunque risieda, sa come la crisi economica, il dramma della disoccupazione, la caduta di reddito e status sociale di vastissimi settori di ceto medio, pesino alla lunga infinitamente di più della paura del virus - anche perché i loro effetti sono destinati a durare infinitamente più a lungo. Se non si contrastano con efficacia i Trump su questo terreno, passeranno i loro messaggi complottistici che scaricano sul Nemico interno e esterno tutte le responsabilità per ogni disfatta amministrativa e politica. Altro errore capitale dei democratici: condurre una campagna-referendum su Trump, sul fool, sul guitto Trump, invece che sui reali problemi per i quali è stato ancora votato, contro ogni sondaggio e tutte le previsioni del political correct.

Ma la questione di fondo che queste elezioni americane mettono a nudo - e in questo senso esse assumono davvero un valore epocale - è un altra. È in crisi l’idea di democrazia nel Paese guida dell’Occidente democratico. Non si tratta qui di comportamenti più o meno spregiudicati, ma di atti decisivi in momenti decisivi , che creano cesure irreversibili. La validità stessa della procedura elettorale e delle regole del gioco a tutti note è stata messa radicalmente in questione. E non per ragioni tecniche, bensì a causa dell’onorabilità dell’avversario.

Se perdo è perché il sistema di cui quest’ultimo è a capo mi ruba la vittoria. In caso di sconfitta il risultato elettorale non è perciò espressione della volontà del popolo. La procedura democratica la tradisce, se non convalida la mia posizione che con quella volontà si identifica a priori.

Populismo e sovranismi cavalcano questa tendenza ovunque nei Paesi democratici: esistono “poteri forti” che alterano la voce del popolo sovrano, che io soltanto so ascoltare, con cui io solo mi immedesimo, quotidianamente, come quotidianamente sono col mio pubblico in uno show televisivo o con un tweet.

Insomma, non ho bisogno di conferme elettorali, con le loro regole farraginose, con le loro lungaggini burocratiche, per sapere chi sia il tribuno del popolo, e tantomeno della mediazione di élite di partito o sindacali. Le categorie della mediazione e della rappresentanza sono quelle su cui si è retta finora l’idea di democrazia liberale. Dagli Stati Uniti ci si rivela, finalmente in modo inequivocabile, la loro crisi. Se i democratici non lo comprendono e non mettono mano alla loro riforma, vinceranno ancora questa volta, ma si aprirà l’epoca di cui Trump potrebbe essere l’incosciente profeta.