«Siamo come piante pioniere che danno vita a terreni con poco nutrimento». Sono le autrici italiane  di graphic novel. Che rappresentano  il diritto di essere diverse e molteplici. La nuova consapevolezza  di essere donne

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Siamo come piante pioniere che danno vita a terreni con poco nutrimento...Così dice Ana Mendieta in “Feminist Art” (Centauria), la graphic novel (scelgo deliberatamente di usarlo al femminile) di Valentina Grande ed Eva Rossetti. “Feminist Art” racconta le donne americane che hanno rivoluzionato l’arte: attiviste che utilizzavano il loro lavoro come mezzo di lotta. Ana Mendieta era un’esule cubana. I suoi genitori decisero di affidarla all’operazione Peter Pan per farla emigrare negli Stati Uniti.

Forse per questo Ana Mendieta dedicò il suo lavoro al tema dell’origine e dell’identità, partendo dal proprio corpo. Mendieta «voleva il ritorno alla madre senza la patria: il pater che ha sempre definito il corpo della donna», scrive Valentina Grande. Modulò il tema del ritorno con le “siluetas”: fuoco, fiori, argilla per lasciare la forma del suo corpo sul suolo e diventare così un’estensione della madre terra. Gli artisti maschi si imponevano sulla natura, le artiste no, diceva Mendieta, erano come piante pioniere.

Mai come oggi, le donne vogliono parlare di donne. Si mettono a fuoco attraverso la lente di una nuova consapevolezza; contro qualsiasi pregiudizio, difendono il diritto a essere diverse e molteplici. Questo filo rosso evidente nel dibattito pubblico degli ultimi anni trova oggi una sua espressione potente nelle graphic novel delle più talentuose autrici italiane. Biografie, racconti, graphic memoir in cui le donne vengono raffigurate in tutte le declinazioni possibili. La sensazione, leggendo, è quella di essere una moltitudine; una moltitudine bellissima nella sororanza.

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Vanna Vinci appartiene alla generazione precedente di grandi disegnatrici. È appena uscita in libreria con “Parle-moi d’amour (Feltrinelli): «Leggendo diversi libri ho scoperto le vite avventurose di queste sette grandi cortigiane vissute a Parigi durante la Belle époque e ora pressoché dimenticate. La loro vitalità, il carattere eccezionale e lo spirito libero da convenzioni mi hanno portato a raccontarle, anzi, a intervistarle facendo rivivere la loro voce». Dalla Marie Duplessis che ispirò Dumas per “La signora delle camelie”, fino alla Belle Otero, la galleria di dame di Vinci sembra oggi più che mai un inno alle donne, al loro corpo, alla loro indipendenza e al loro piacere, che è anche piacersi con orgoglio. Il parlare d’amore del titolo è un discorso che facciamo con noi stesse.

«Quando ho iniziato a fare fumetti alla fine degli anni ’70 eravamo un gruppo sparuto ma agguerrito», dice Cinzia Leone, grande autrice di graphic novel e romanzi: «Anna Brandoli, Cinzia Ghigliano, Cecilia Capuana e poche altre. Dovevamo affrancarci da una cultura patriarcale e la nostra rivoluzione era mettere al centro donne avventurose, intelligenti e battagliere. Oggi le autrici di fumetto sono tante e hanno conquistato il mercato».

Feminist Art racconta anche di Judith Chicago, l’artista che aveva messo al centro della sua arte la vagina: aveva raffigurato un assorbente, parlato di sangue mestruale, tolto un velo all’indicibile. Quello stesso argomento torna oggi in molti altri libri illustrati. È una forma di denuncia senza i toni della provocazione; l’intento è portare nel racconto quello che spesso è stato un tabù: operazione altrettanto rivoluzionaria. In “Rosso è bello” (Sonda), Lucia Zamolo racconta del ciclo mestruale a chi si appresta ad avere il primo ciclo. Ci sono illustrazioni di mutandine, scie rosse, superstizioni da sfatare. C’è incisività e delicatezza. Le tasse sugli assorbenti vengono diminuite e noi abbiamo voglia di parlare di donne in modi nuovi. E il punto di arrivo è uguale al punto di partenza: siamo sempre noi.
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Le ultime due graphic novel di Barbara Baldi, illustratrice della Disney, vincitrice del Premio Micheluzzi e del Premio Gran Guinigi come miglior disegnatrice, sono intitolate “Lucenera” e “Ada” (entrambe edite da Oblomov Edizioni): Clara e Ada, le protagoniste, appartengono a mondi passati, eppure hanno lo slancio delle donne contemporanee che cercano la propria realizzazione personale. Sono corpi esili contro il buio delle avversità e dei pregiudizi, donne che contraddicono il loro aspetto.

Clara vorrebbe suonare il suo clavicembalo, Ada non vorrebbe altro che dipingere, perché attraverso il disegno dà senso al proprio stare nel mondo. La passione dei personaggi di Baldi ci arriva attraverso la bellezza dei disegni, che ricordano Vermeer, Monet, i macchiaioli italiani; e attraverso la sospensione del tempo, i silenzi di paesaggi che sono sempre il riflesso dell’anima delle protagoniste. «Per me sono gli occhi dei personaggi a parlare tantissimo», spiega.

Le donne, i loro sogni, la loro intenzione di autodeterminarsi e di farlo fuori dall’amore. In tutti i titoli di questi ultimi anni l’amore non c’è, non nel senso tradizionalmente romantico, non come sogno di realizzazione. Ma c’è l’amicizia. L’amicizia come desiderio di compenetrarsi, l’amicizia come prima declinazione dell’amore.

Silvia Rocchi ha vinto per la sua graphic novel “Brucia” (Rizzoli) il premio Boscarato come miglior autrice unica. Le sue protagoniste, Maria e Tamara, che assomigliano a quelle di “Acciaio” di Silvia Avallone, sono divise dalla diversa estrazione sociale e dalla diversa maturità. Gli anni Ottanta, la provincia Toscana, la grande acciaieria che dà lavoro a tutti e poi brucerà per sempre. Rocchi stratifica i dialoghi in un intento di coralità e usa un tratto spigoloso, in bianco e nero, che sfugge a ogni lirismo e nei tratti più intensi delle sue storie prende i toni del diario intimo: la matita diventa carica, violentemente espressiva, si fa specchio dello stato ansioso dei personaggi.

Nel caso di Baldi e di Rocchi ci muoviamo ancora nel genere della fiction, eppure la tendenza negli ultimi anni va anche in un’altra direzione: quella del graphic memoir. «Raccontavamo la rivolta femminile rivendicando il corpo e il genere», dice Cinzia Leone: «Le nuove autrici mettono il corpo al centro della loro narrazione come liberazione e terapia». Le donne hanno voglia di mettersi in gioco in prima persona.

Stanno per diventare madri come Sara Menetti (“Pregnancy Comic Journal”, Feltrinelli) ma non sanno se lo vogliono questo figlio, non hanno deciso il nome né arredato la cameretta, non sono prese dall’estasi, ma da tantissima paura. Oppure hanno voglia di fare sesso per dimenticare la solitudine come Cristina Portolano in “Non so chi sei” (Rizzoli Lizard), diario intimo delle propria esperienza con le app d’incontri: hanno voglia di sentirsi desiderate perché il desiderio è una specie di promessa; non hanno corpi perfetti, ma non gliene importa nulla; cercano uomini, ma hanno avuto una storia con una donna che adesso sta diventando uomo. Le nuove autrici non seguono alcun modello precostituito: è una forma di denuncia già oltre la denuncia. È impegno femminista perché dice che possiamo essere anche così e in mille altri modi ancora da inventare.

Il graphic memoir nasce da un’urgenza intima e mette l’autrice al centro. L’uso dei social come autopromozione consente di condividere l’empatia della propria opera in modo continuo e diretto. E il luogo bruciante sul quale si iscrive la propria autobiografia è sempre il corpo. «Lo scenario che le trentenni si trovano davanti è molto diverso dal nostro: c’è meno ideologia, meno politica, meno maschile e molte zone grigie. Confini più labili che il graphic memoir affronta con il passo giusto», dice Cinzia Leone. «Autrici come Zuzu, Nicoz Balboa, Fumettibrutti, con slancio e sofferenza, sanno affrontare uno dei temi forti della contemporaneità: la fluidità».

Lo hanno fatto fin dal nome: nomi d’arte, senza genere; ma non pseudonimi veri e propri dietro ai quali nascondersi, piuttosto la dichiarazione di una dimensione ludica. «Zuzu è il soprannome che mi aveva dato mio padre da bambina», dice Giulia Spagnuolo: «è un nome che rimanda al gioco. Quando lavoro non posso che essere Zuzu». Giulia Spagnuolo ha vinto nel 2019 il premio Cecchetto come autrice rivelazione e il Gran Guinigi come miglior esordiente. È autrice della sigla animata del programma televisivo “L’Assedio” di Daria Bignardi e collabora con “Internazionale”. “Cheese” (Coconino Press) è la sua prima graphic novel.

È la storia di un’amicizia tra Zuzu, Dario e Riccardo: sembra un ménage à trois alla Jules e Jim, fatto di giovinezza e noia, di serate a ballare e giornate che girano a vuoto, fino a quando non si ritroveranno tutti e tre in montagna a una strana manifestazione che prevede di rotolare giù da un pendio insieme a delle forme di formaggio. C’è tutta il cupo fascino della giovinezza dentro lo stile ruvido, abrasivo e in bianco e nero; personaggi con volti quasi animaleschi, nasi improbabili, arti sproporzionati. E poi c’è Zuzu e i suoi occhi neri senza iridi né sclere bianche, che ancora non vede sé stessa.

«Sono un albero», dice. Un albero che si china a vomitare e il vomito sono tentacoli, mostri che cancellano ogni cosa, che occupano la pagina. «Volevo riportare su carta la dissociazione del disturbo mentale», dice: «La vita vera sembra non avere a che fare col tuo problema. Sembra che le due realtà non si tocchino, invece ti sbagli». Dell’anoressia non si parla, nessuno lo vuole davvero. È il corpo a farlo, fluidificandosi in un incubo surrealista. Il corpo lì a dire, senza tabù né vergogna, di un disturbo che accomuna molte ragazze.

Nicoz Balboa (Nicoletta Zanchi), illustratrice e tatuatrice, in “Play With Fire” (Oblomov Ed.) racconta la sofferenza della ricerca della propria identità, prima di tutto sessuale. Madre etero di Mimmi, Balboa mette in scena la forza dilaniante dei dubbi e poi il coming out, l’amore con le ragazze e con il ragazzo trans Stef. Perché la vera sfida è il racconto in prima persona, il rivendicare questa dimensione fluida. «Il fumetto viene considerato, per sua natura, una narrazione differente, “altra”, dai libri o dalla letteratura. Leggere fumetti ti dà la possibilità di ritrovarti di fronte al più intimo punto di vista di chi disegna. Non credo si possa mascherare il proprio orrore, desiderio o paura dietro le linee di una vignetta», dice Fumettibrutti (Josephine Yole Signorelli), artista premiatissima, attivista e influencer.

Con “Anestesia” (Feltrinelli), ultimo volume di una trilogia, ha raccontato la storia di una metamorfosi: il cambio di genere. Parlare di sé è parlare del proprio corpo che attraverso il rifiuto, rinasce; rinasce nella solitudine di un ospedale prima dell’intervento di vaginoplastica; rinasce nella fretta giovane e caparbia: «Sento che non saprò mai cosa sia vivere se non mi prendo tutto e subito», dice la protagonista. Il tempo è un elemento fondamentale della narrazione: non è solo voracità della vita, ma anche l’urgenza da cui nasce il graphic memoir. La necessità di arrivare al lettore non può sostenere le digressioni di un disegno ben fatto: ma per disegnare male in questo modo, bisogna essere bravissimi. Lo stile è ruvido, ma la storia commuove pagina dopo pagina, in un’alchimia di brutalità e dolcezza.

«La prima volta che ho letto “Alice nel Paese delle Meraviglie” non mi sono chiesta se fosse una ragazza cisgender, se fosse bionda, alta o magra, ma ero comunque in sintonia con lei. Ogni grande storia fa questo, ti consente di rivederti nei personaggi. Non so se sono riuscita anch’io in questo intento, ma è sempre stato il mio obiettivo scrivere le mie storie come se fossero degli specchi».

Oggi il discorso di genere e quello sulle molte identità è un’esigenza del pubblico. E lo è perché tutti siamo sempre in transizione. Come donne abbiamo sempre l’esigenza di rivedere la nostra condizione, di riaggiustarla, di metterci dentro un pensiero critico per non farci sopraffare dai pregiudizi e tenere a mente i nostri diritti. Dice Signorelli: «Il femminismo mi ha insegnato a non abbandonare mai il campo». Le fumettiste italiane di oggi sembrano indicare una strada che ci coinvolge tutte.