
Basti pensare a Joker, l’inquietante clown magistralmente interpretato da Joaquin Phoenix nel film di Todd Phillips, con il suo finale criptico e le implicazioni in materia di potere e consenso. Fatto sta che paradossalmente la finzione e i suoi protagonisti, con il loro potenziale rivoluzionario, possono rivelarsi in questi tempi difficili una chiave di lettura illuminante della realtà.
«A volte i personaggi di fantasia sono più efficaci di altri strumenti per analizzare i fenomeni sociali. La finzione, infatti, non nasce nella mente delle persone creative ma è un sentimento storico e archetipico profondamente sedimentato», riflette Luca Cangianti, redattore della webzine letteraria Carmilla, che insieme a un gruppo di scrittori (Fabio Ciabatti, Gabriele Guerra, Mazzino Montinari, Maurizio Marrone, oltre allo stesso Cangianti) ha dato alle stampe il libro “Il viaggio rivoluzionario dell’eroe” (Mimesis), che mette in discussione il paradigma classico del mito seguendone le tracce attraverso cinema, letteratura, antagonismo sociale. «Avevamo quasi finito di scrivere il libro quando è scoppiata la pandemia: è diventata una occasione straordinaria per riflettere sui pattern delle sceneggiature di Hollywood», prosegue Cangianti.
Con i loro saggi gli autori, che si ispirano all’epistemologo brasiliano (immaginario?) Antongiulio Penequo, si cimentano in un’operazione spericolata, ardita, a tratti visionaria. Ciascuno con il proprio metodo - filosofia, sociologia, epistemologia - ribaltano lo schema tradizionale disegnato da Christopher Vogler in “Il viaggio dell’Eroe” (ora in una nuova edizione da Dino Audino), classico a uso degli sceneggiatori americani, che a sua volta riprende gli studi di Joseph Campbell, autore di un altro caposaldo, “L’eroe dai mille volti” (Lindau): il modello secondo cui il protagonista è pronto a intraprendere un’avventura che lo strappa alla realtà quotidiana, portandolo in un “mondo straordinario”, nel quale dovrà superare prove mortali nel tentativo di sconfiggere il nemico e riportare a casa un dono capace di restaurare l’ordine violato.

Gli autori ritengono il paradigma classico, che risale alla notte dei tempi, sia meno fecondo di altri e dunque concentrano l’analisi su alcuni esempi devianti. «Casi in cui l’eroe non torna a casa, ma rimane a combattere nel mondo straordinario, oppure torna a casa, ma riparte per nuovi viaggi, come l’Ulisse dantesco, Frodo del “Signore degli anelli” e Che Guevara. O ancora, allunga indefinitamente il proprio percorso come nel caso dell’eroe femminile», aggiunge Cangianti, che a quest’ultima figura dedica una riflessione a partire da “Orphan Black”, la serie tv canadese di fantascienza con Sarah Manning protagonista (interpretata dall’attrice Tatiana Maslany), una ragazza orfana che assume l’identità di una donna suicida identica a lei, scoprendo in seguito di essere uno di molti cloni in circolazione. «Prima di iniziare il viaggio, la protagonista si libera innanzitutto del fidanzato violento, che la vuole limitare nella sua soggettività», dice lo scrittore, che sottolinea le differenze tra eroe e eroina: quest’ultima, a differenza del protagonista maschile, si deve confrontare con il millenario dominio patriarcale e non torna mai alla normalità casalinga, perché è proprio quella il problema.
Non abbandona il mondo ordinario, insomma, ma l’illusione del mondo perfetto: spesso per la protagonista femminile il risveglio avviene nel primo atto, in conseguenza di un incidente scatenante, come nel caso di “Thelma & Louise” (1991), con il comportamento crudele del marito nei confronti di una delle protagoniste, o la violenza sessuale avvenuta nel parcheggio del pub. «Il viaggio femminile non si chiude mai illusoriamente ma prosegue a oltranza: è circolare, non lineare. La sua tensione verso l’infinito rappresenta simbolicamente “la rivoluzione in permanenza”, avrebbe detto Marx che femminista non fu», conclude Cangianti.
Sventurata la terra che ha bisogno di eroi, ammonisce Bertolt Brecht. Il mito, tuttavia, può assumere le sembianze più varie, anche di quelle di un clown in una Gotham City sull’orlo del collasso. Maurizio Marrone si sofferma su Joker-Arthur Fleck, figura emblematica e contraddittoria tanto da rappresentare la rottura di ogni paradigma, fino al punto di non poter essere considerato neanche un vero eroe che guida le masse, anche se nel finale gli ingredienti ci sarebbero tutti: il fuoco è divampato, la folla esulta ai suoi piedi, il nemico è allo sbando. Eppure, malgrado tutto, Joker resta solo un folle criminale.
«Lui non è un eroe perché non si percepisce come tale. Manca l’elemento fondamentale, la decisione: non può esserlo perché il ricongiungimento avviene senza che lui abbia fatto nulla per volerlo». È qui l’abisso tra “Joker” e il suo padre nobile, “Taxi driver” (1976) di Martin Scorsese, e tra i rispettivi protagonisti. Se Arthur Fleck infatti non vuole essere un leader, un rivoluzionario, Travis Bickle «assurge a protettore celebrato del mondo borghese perché il suo gesto è frutto di una scelta», conclude Marrone: «Quella di indossare i panni del vendicatore che ripulisce il marciume per proteggere la prostituta minorenne, anche a costo della propria vita».