Mobili che non stanno fermi: divani multiformi, librerie allargabili... Esposti da cinquant'anni al Moma di New York e rilanciati oggi da varie aziende, dal Friuli al Giappone. Ricordi e progetti del padre della Plia, la pieghevole più famosa al mondo

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Per capirci, la volta che in un articolo sulle “stanze delle meraviglie” Gillo Dorfles elencò «le creazioni dei più illustri maestri del design contemporaneo», ne citò cinque: il posacenere cubico e la lampada-calza di Bruno Munari, lo sgabello Mezzadro di Achille Castiglioni, la lampada Eclisse di Vico Magistretti e la sedia Plia di Giancarlo Piretti. Sette milioni di pezzi venduti, la Plia fu una rivoluzione quando uscì per Castelli nel 1969 ed è verosimilmente la sedia più longeva della storia dell’arredamento dopo la Thonet.

Eppure. «Sa che non vinse mai il Compasso d’oro?», il massimo riconoscimento dell’Adi, Associazione per il disegno industriale, racconta Piretti con un filo di mai sopita irritazione: «Un paio d’anni dopo i milanesi se ne accorsero e, forse per rimediare, la premiarono allo Smau come “oggetto per l’ufficio”. Ma non è mai stata pensata per l’ufficio! Lo sarà, questa sì, la mia nuova Plia. La Lunetta, come l’hanno battezzata i giapponesi di Okamura, che l’hanno già in produzione, in vendita dal prossimo gennaio». Per sale riunioni, elegante, assai comoda, schienale elastico per via del nylon e della foggia a tagli che pare un Fontana, richiudibile in pochi centimetri.
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Altra sedia, altra rivoluzione auspicata. Alla bellezza di ottant’anni e con una fortuna sfacciata, ché neanche il Covid gli ha fatto un baffo: giusto due settimane in quarantena, irritato in gabbia perché privato dei suoi cinque chilometri al giorno di camminata sotto i portici di Bologna ascoltando in cuffia l’amato Donizetti, delle partite a golf al 18 buche di Crespellano, delle lezioni di dialetto al Ponte della Bionda per il gusto di rivangare l’infanzia contadina da sfollato in tempo di guerra.

Un’avventura anomala, quella di Piretti. Snocciolata in un centinaio di oggetti (e un migliaio di varianti) entrati nelle nostre case e negli spazi pubblici, uffici, aule, sale, aeroporti. Imperituri alcuni, come il sistema di sedute impilabili “106”, finito pure a Cape Canaveral, tuttora prodotto e stravenduto fin da prima della Plia. Legati altri al gusto e alle logiche produttive di un decennio: come il Planta, l’appendiabiti-portaombrelli in plastica colorata che pare una palma, pezzo topico degli anni Sessanta, o Dilemma, l’appendiabiti-scala anni Ottanta che diventa l’una e l’altra cosa, «studiato perché mi mancava una scala e non mi piacciono le case zeppe di oggetti, amo sfrondare, mai accumulare».

Una vita ritmata da inaspettate opportunità, improvvisi successi, repentine rotture di sodalizi di lavoro, rapporti altalenanti e complicati con l’establishment del design italiano, rispetto al quale ha finito per diventare una sorta di émigré interno. Ire funeste, anche: come quando al Moma, una decina d’anni fa, piazzarono accanto alla sua Plia, lì dal ‘72, la sedia di un altro designer che lui giudicava una scopiazzatura, e scrisse che se le cose stavano così allora togliessero la sua. Senza successo, per fortuna.
Giancarlo Piretti in una foto degli anni Settanta

Molto gli ha reso, in parte gli ha nuociuto, ma è sempre stato abituato a fare quello che voleva, Piretti. «Non ho mai disegnato sotto commissione», racconta, «neanche quando giovanissimo lavoravo per Castelli. Cesare, “il Commendatore”. Io avevo 19 anni, lui venne all’Istituto d’arte a caccia di allievi in gamba, gli indicarono me, mi prese a patto che mi iscrivessi all’Accademia di Belle Arti. In ditta arrivavo alle 6 di mattina, e s’arrabbiavano i portinai. Mi diede uno studio tutto per me con il permesso di sentir musica, e non se ne capacitavano gli impiegati. Mi disse, in dialetto, “fa’ quel che ti pare, poi fammi vedere”, una condizione fantastica e irripetibile, poi però mi toccava litigare con i tecnici, che son bravi a far funzionare le cose ma non rischiano a cuor leggero, mentre il designer azzarda il massimo perché l’oggetto riesca il più bello possibile. Quando entrai, la Castelli aveva settanta dipendenti e faceva mobili pseudoantico in legno, solidi ma terribili; vent’anni dopo, quando me ne andai, erano in più di mille e l’impresa una delle protagoniste del disegno industriale italiano».

Giocano, nel successo, l’intuizione progettuale, l’ostinata ricerca di soluzioni inesplorate, la spregiudicatezza commerciale, la fortuna. I rudimenti Piretti li impara nel ‘65: lungo viaggio di nozze con Paola, tuttora sua moglie, nella Danimarca del design d’avanguardi a di Juhl, Jakobsen, Wegner e Kjærholm. Quando l’anno dopo comincia ad arrovellarsi su quella che sarà la Plia, vuole che da chiusa sia ultrapiatta, 5 centimetri: lo pigliano per matto quando s’inventa un cardine a tre dischi in alluminio con dentro acciaio, ma è il primo di una sessantina di brevetti che oggi gli cura la figlia Maria Elena, laureata in Diritto industriale.

Poi la sua creatura dev’essere trasparente e resistente, ma una plastica del genere ancora non c’è: scopre che la Bayer ne sperimenta una per occhiali da sole, lui e il figlio più piccolo di Castelli, Giancarlo, fanno la spola con la Germania finché il colosso della chimica accetta di studiarne una apposta per loro, il Cellidor. L’ideaccia ce l’ha Giulio Ponzellini, direttore generale: «Con una spericolata politica commerciale, mise in vendita la Plia al prezzo stracciato che avrebbe avuto se fosse stata prodotta con grandi macchinari automatici che ancora non possedevano, sui quali fecero grandi investimenti ai primi ritorni. Vennero, ricordo, dei dirigenti Olivetti, dissi il prezzo, “non mangerete il panettone a Natale”, sorrisero».
La sedia Plia negli schizzi del 1969

E invece. La Dea Fortuna arriva con le fattezze di Mila Shön, la stilista che già veste il jet set e frequenta artisti di casa e d’oltreoceano. Vede la Plia, ne compra duemila per sfilate e boutique, le riviste di moda cominciano a fotografare le modelle su quel leggiadro supporto, David Hamilton ci adagia le sue ninfe evanescenti. Un mare di pubblicità senza spendere un soldo, e gli ordini fioccano da tutto il mondo.

Per Castelli usciranno altri suoi pezzi, uno per tutti il divano modulare detto “61” perché sedile, bracciolo, schienale e pezzo d’angolo misurano tutti 61 centimetri o la metà e li componi come ti salta l’uzzolo: ha sempre avuto, Piretti, il miraggio di una casa in cui «agli oggetti succede qualcosa nel tempo e possono variare d’aspetto da un’ora all’altra». Ma ormai è fatta.

Nel ‘72 la Plia e due connessi oggetti pieghevoli, la poltroncina Plona e il tavolino per bambini Platone disegnato come banco di scuola, entrano al Moma, occasione la grande mostra “Italy: the new domestic landscape” organizzata da Emilio Ambasz, che del museo newyorkese è all’epoca il curatore di architettura. Lì i due si conoscono e decidono di mettere su studio insieme a Bologna, dove Ambasz viene ogni tanto. Realizzano la sedia Vertebra, Compasso d’oro, anch’essa al Moma in due versioni e pure al Metropolitan; la Dorsal, per ufficio; due lampade per la tedesca Erco Leuchten, ancora nell’82.

Anni Ottanta, Memphis e Alchimia, le giovani leve, le riviste, la rinascita della Triennale, Milano caput mundi. Nell’entourage dei pari, Piretti è sempre un piede dentro e uno fuori. Li conosce, certo, Sottsass, Mendini, Mari, «artisti di genio, ma postmoderno e neomoderno non sono mai stati nelle mie corde». Cita piuttosto Dino Gavina, felsineo come lui, che era designer editore e imprenditore della Flos; o Antonio Citterio che, «io trentenne, lui ventenne militare a Bologna, venne a trovarmi perché gli piacevano i miei oggetti: siamo rimasti buoni amici e sono suo grande estimatore». Finalmente nell’establishment, il Nostro, se nell’83 entra nel direttivo dell’Adi, presidente «quel galantuomo di Giotto Stoppino»? Macché. Tempo tre anni, molla tutto e se ne va, par di capire quando Craxi imperversa e le commistioni con la politica diventano ingombranti.

Con il suo piccolo studio, massimo 12 persone, pagandosi i prototipi, minimo 20 mila euro a pezzo, cedendo alla fine i diritti di produzione a grandi gruppi stranieri, nella sua seconda longeva giovinezza lo vediamo sbizzarrirsi su sedute d’ogni tipo, dall’ufficio al relax, e un plotone di sedie Piretti Collection, altro Compasso d’oro e una sfilza di premi all’estero, tuttora prodotte e vendute dalla giapponese Okamura, la coreana Sidiz, l’americana Ki.

E poi telecomandi, maniglie antipanico, meccanismi di autotarabilità, librerie estensibili come la Dilato, tavoli che si allungano su ruote con un dito e un gesto come il Dilungo o si ripiegano a spicchi come il Plano e il Piego. Mai che un suo oggetto resti imbalsamato nella sua fissità. Come fossero pensati per spazi fluidi e vite mutanti, sono tutti da smontare, rimontare, ricomporre, giocarci a nascondino come già la scala acquattata nell’attaccapanni: che, su richiesta dei giapponesi, s’appresta ora a rifare più leggera che pria. Altro conto da chiudere è un progetto che si porta appresso da decenni, con i prototipi che s’accumulano: un tavolo detto Plico a petali di fiore che s’aprono verso l’alto, sicché diventa a metà mensola, consolle, decorazione, o sparisce nel ripostiglio. In studio intanto gli si è affiancato come designer, ma in autonomia, il figlio Alessandro.

Dalla Plia siamo partiti, con la Plia chiudiamo. È esposta ovunque, ultimo il nuovo Museo del design in Triennale di Milano. Venduta come modernariato, al pari di altri pezzi Piretti, a prezzi da capogiro: ironia della sorte, visto che quasi tutti erano nati per costare poco, «il mio breve afflato da sessantottino, poi il mercato ha avuto la meglio, non ho più avuto voce in capitolo», sorride.

Peggio dei gatti, è di nuovo in produzione, la Plia. Fallita nel 2014 quel che restava della Castelli in mani americane, la famiglia di imprenditori friulani Pavan l’ha rilevata all’asta e ha ricominciato a produrre vari pezzi. E a Verona i giovani di Codiceicona, che rifanno i capolavori del design dal ‘29 in poi, ne hanno sfornato una elegante special edition col sedile a pallini. «Ah, loro sì bravi da morire!», chiosa, per una volta, l’ipercritico Piretti.