Il direttore di Le Monde: «Gli abbonati online sono i garanti della nostra libertà»

Lemonde-jpg
Lemonde-jpg

Un milione di lettori fidelizzati entro il 2025. Per essere al riparo dalla crisi della pubblicità. Così il quotidiano più autorevole di Francia reagisce ai problemi del settore e difende la sua indipendenza. Mentre la stampa è sotto l’attacco di Macron

Lemonde-jpg
«È una settimana molto carica, in realtà è un mese da pazzi questo», osserva Jérôme Fenoglio, direttore di Le Monde. L’attualità francese degli ultimi mesi in effetti è debordante: oltre al picco della pandemia e alle misure di (s)confinamento si aggiungono gli attentati islamisti e le reazioni in Medio Oriente alle dichiarazioni del presidente Macron, la nuova legge sulla “sicurezza globale” e le manifestazioni per il suo ritiro, le brutali violenze commesse nei confronti del produttore nero Michel Zecler.

L’Espresso ha incontrato il direttore a Parigi nel suo ufficio al settimo piano del nuovo edificio inaugurato a maggio nel dinamico quartiere della stazione d’Austerlitz. La nuova casa del gruppo Le Monde, che comprende i giornali Courrier International, La Vie, Télérama, è un’imponente struttura vetrata di oltre 22 mila metri quadri in grado di accogliere 1.600 lavoratori tra giornalisti e personale, 592 solo del quotidiano Le Monde.

Negli open space del principale quotidiano francese non si respira aria di crisi: i giornalisti sono «una risorsa fondamentale», sottolinea il direttore. Assunto dal giornale trent’anni fa come giornalista sportivo, Jérôme Fenoglio, cognome piemontese ereditato dal bisnonno originario di un paese vicino ad Alba, la stessa zona dello scrittore, ed emigrato in Francia agli inizi del Novecento, nel 2015 è diventato direttore.
Lemonde2-jpg

Secondo il Financial Times, quest’anno tra marzo e giugno, negli Stati Uniti circa 38 mila lavoratori dell’informazione, dai giornalisti al personale commerciale, sono stati licenziati o hanno subito una riduzione di stipendio. L’industria dei giornali è in crisi da trent’anni: calo delle vendite, calo dei ricavi pubblicitari, editori in perdita, strategie digitali deboli. Il vostro giornale sembra andare contro questa tendenza. Perché Le Monde funziona così bene?
«In questo periodo emergono due grandi problemi della stampa: da un lato la crisi della pubblicità, che è stata in gran parte assorbita dai mastodonti americani, da Google, Facebook e dall’altro un classico problema di distribuzione in edicola aggravato dal lockdown e dal forte calo dell’attività economica. Nonostante queste difficoltà, il nostro giornalismo sta andando molto bene. La crisi del covid ha dimostrato che oggi siamo diventati un media importante con un sito web molto frequentato: in un periodo in cui c’è tanta attualità, questo penalizza la pubblicità, ma aumenta il bisogno dei lettori di un giornalismo di qualità, di informazioni affidabili. Le scommesse che abbiamo fatto anni fa sono state confermate. Abbiamo sempre difeso un giornalismo molto completo, e l’idea che l’informazione non possa essere ridotta alla gratuità. Siamo stati tra i primi in Francia ad adottare la formula dell’abbonamento digitale, questo ci permette di creare un rapporto di fedeltà con i nostri lettori, meno costoso per noi e per i nostri abbonati rispetto al giornale cartaceo. Dall’inizio dell’anno, abbiamo reclutato 100 mila nuovi abbonati, cosa mai successa prima nella nostra storia».

Non avete ridotto il numero dei giornalisti né ridefinito i loro stipendi. Potete davvero compensare la perdita di entrate pubblicitarie solo attraverso gli abbonati?
«Sì, il boom degli abbonamenti si è accelerato negli ultimi tre anni e sta compensando ampiamente le perdite in altri settori. Questo ci permette di essere molto ottimisti sul futuro. Concluderemo quest’anno con quasi 500 mila abbonati, a metà strada dall’obiettivo di un milione che ci siamo prefissati per 2025. Un milione di abbonati sarà una rivoluzione: i ricavi saranno molto più stabili, meno esposti ai rischi della pubblicità. Non credo né mi auguro che la pubblicità sparirà, rimane una risorsa importante e la difendo perché penso sia un bene per un giornale che vuole rimanere indipendente avere un fatturato equilibrato e non dipendere interamente dai suoi abbonati».

Secondo un rapporto del Reuters Institute for the Study of Journalism sulle conseguenze della pandemia nel settore dell’informazione, i media di tutto il mondo si sono adattati praticando il telelavoro. La pandemia dovrebbe accelerare la trasformazione delle redazioni in “redazioni ibride”. Come valuta questa possibile trasformazione?
«Penso che in futuro ci saranno un po’ più giornalisti o altri dipendenti di Le Monde che decideranno di lavorare a distanza, uno o due giorni a settimana. Ma c’è sempre bisogno di una sede centrale, siamo molto contenti di avere qui la nostra sede, perché la vita collettiva è una dimensione molto importante dell’attività di una redazione. Ci saranno piccoli adattamenti: alcune delle attività realizzate in sede, come la correzione o l’editing, potranno essere svolte in modo più flessibile».

Secondo il Financial Times negli Stati Uniti, quattro grandi quotidiani (New York Times, Washington Post, Wall Street Journal, Financial Times) hanno ciascuno un milione di abbonati. Pensa che questa crisi darà un colpo di grazia ai giornali più piccoli e darà sempre più visibilità ai grandi giornali?
«Non credo che sarà così drammatico in Francia, ci sono meno giornali locali che negli Stati Uniti e avranno più mezzi per continuare a sopravvivere perché possiamo sperare che la cultura della lettura e della stampa restino forti. A mio parere un forte adattamento digitale permetterà a molti di sopravvivere. Ci saranno sicuramente piccole redazioni che pubblicano su carta che ne risentiranno, d’altra parte la tecnologia digitale permette anche l’emergere di una tale diversità di titoli che non sono legati alla carta, i “pure players”».

In una conversazione del 2017 sul futuro dei giornali, Jeff Bezos, che ha acquistato il Washington Post, ha dichiarato di voler gestire il giornale come Amazon e secondo tre principi: essere incentrato sul cliente, essere inventivo e sperimentale, e avere una visione a lungo termine. Come valuta questo modello?
«Quello che mi spaventa dei commenti di Bezos è che parla dal punto di vista capitalista di un prodotto che sarebbe come qualsiasi altro, mentre si tratta di informazione. Fortunatamente i nostri azionisti non si sono comportati così, si sono fidati di noi e ci hanno lasciato sviluppare la nostra offerta editoriale da giornalisti. Penso che l’informazione sia molto speciale, bisogna fidarsi dei giornalisti per trovare un modello di business che permetta loro di vivere della loro attività e anche di renderla redditizia, per poter investire sempre di più in questa attività impegnativa e costosa. Naturalmente per trasformare il giornalismo dobbiamo pensare al lettore e all’innovazione per soddisfarlo, e ci abbiamo pensato ben prima che Jeff Bezos ce lo dicesse! Grazie alla tecnologia digitale, abbiamo scoperto che i lettori amano leggere articoli lunghi. Fare un giornale significa difendere una visione del mondo condivisa con i propri lettori, ma anche saperli scuotere perché non si addormentino mai, mostrando loro cose che non vorrebbero vedere. Non si deve realizzare un prodotto calibrato sui gusti del lettore, se la pensi così, ti perdi. Dobbiamo rivolgere il nostro sguardo e quello dei lettori verso l’alto!».

Il Guardian è stato a lungo finanziato da una fondazione per garantire l’indipendenza finanziaria ed editoriale, per salvaguardare la libertà giornalistica e i valori liberali del giornale, assicurando la libertà da interferenze commerciali o politiche. Questa è diventata una società per azioni nel 2008, i cui utili sono reinvestiti nel giornalismo e non distribuiti ai proprietari o agli azionisti. Come valuta questo modello?
«È un modello meraviglioso, stiamo pensando a Le Monde con i nostri azionisti Xavier Niel e Matthieu Pigasse di trasformarci in una Fondazione. Questo ci permetterebbe di operare in modo ancora più indipendente dalle incertezze economiche e di poter garantire un’indipendenza ancora maggiore tra la redazione e il capitale».

Un disegno di legge per la “sicurezza globale”, presentato da due deputati di La République en marche (LRM), con il sostegno del governo, è oggetto di critiche. Molti osservatori hanno messo in guardia contro i rischi di censura contenuti nell’articolo 24, che richiede l’offuscamento dell’immagine della polizia e dei gendarmi per evitare il loro “uso malevolo”. Il ministro dell’Interno ha detto che i giornalisti dovranno presentarsi alle autorità prima di coprire una manifestazione. A questo proposito lei ha scritto: «La qualità dell’informazione non migliorerà mai se la sua condizione primaria, la libertà, è limitata».Oggi in Francia la libertà di stampa è minacciata?
«Spero che non sia minacciata e che tutti si ricordino che è un pilastro essenziale della nostra democrazia. Quello che ho notato dopo l’elezione di Emmanuel Macron, contrariamente a quanto accaduto con i suoi immediati predecessori, anche quelli nei confronti dei quali siamo stati molto critici, è che la sua elezione ha innescato una combinazione di attacchi verbali, procedimenti legali contro i giornalisti o le loro fonti, legislazioni inutili o pericolose, e azioni eccessive che potrebbero finire per danneggiare la libertà di stampa. Sarebbe un grande errore da parte dello Stato interferire nella produzione di informazioni, nella professione del giornalismo. Sarebbe un danno enorme perché aumenterebbe ulteriormente la sfiducia dell’opinione pubblica. Le parole del ministro dell’Interno Gérald Darmanin sono estremamente pericolose. Registrare i giornalisti in una procedura ufficiale equivale a screditare il loro lavoro, equivale a dire «sì, sono registrati», per coprire una manifestazione, lasciando planare sulla loro attività il sospetto di un controllo del loro lavoro. Con il governo Macron c’è stata anche una legge sulle notizie false che non era affatto convincente, non spetta allo Stato determinare cosa è vero e cosa è falso. Lo Stato deve lasciare lavorare i giornalisti, e se a volte ci sono problemi, spetta ai giornalisti risolverli. Non si tratta solo di difendere una professione, ma anche di difendere la capacità di tutti i cittadini di denunciare, di dare l’allarme, di fornire prove di malfunzionamento. Nessun governo democratico dovrebbe permettersi di limitare queste libertà».

Joe Biden ha vinto le elezioni, ma il divario di voti tra lui e Donald Trump non è quello atteso. Quali sono secondo lei le sfide che il presidente eletto dovrà affrontare?
«La grande sorpresa di queste elezioni è che entrambi i candidati hanno ricevuto una quantità esorbitante di voti, dato che ognuno di loro, con un’affluenza record, ha ottenuto il migliore risultato della storia americana. Biden ha ottenuto il punteggio più alto tra tutti i presidenti eletti, ma Trump ha ottenuto il secondo punteggio più alto della storia. È traumatico osservare che Trump ha ottenuto 10 milioni di voti in più rispetto alla prima volta e molti più voti di Barack Obama, che finora è stato il miglior presidente eletto. Penso che Biden debba capire perché Trump ha ottenuto così tanti voti. Dovrà cercare di riconquistare tutte quelle persone che sono disposte a credere alle bugie, a una cospirazione e ad una gestione apocalittica che le uccide, perché il loro disagio è tale che preferiscono fare così piuttosto che votare ragionevolmente per qualcuno che associano alle persone che le ha lasciate per strada. Questo problema riguarda tutte le nostre democrazie. Bisogna essere in grado di affrontare le terribili radici di ciò che ha alimentato il risentimento della popolazione bianca e che, a mio parere, è in gran parte legato a problemi di declassamento sociale. Negli Stati Uniti c’è un problema di omogeneità sociale: l’aspettativa di vita è in calo, soprattutto per la popolazione più esposta alla povertà, mentre la ricchezza è sempre più concentrata».

LEGGI ANCHE

L'edicola

Il pugno di Francesco - Cosa c'è nel nuovo numero dell'Espresso

Il settimanale, da venerdì 25 aprile, è disponibile in edicola e in app