La crisi colpisce duramente i più deboli. Bisogna vincere la tentazione di una risposta individuale e ritrovare la dimensione collettiva della comunità

Aboubakar Soumahoro
«Ogni volta che entro nel mio ristorante cerco di non guardare i tavoli vuoti e di non vedere la sala deserta e senza clienti. Quest’attività, una passione realizzata con i sacrifici di una vita, rischia di chiudere definitivamente per le conseguenze della pandemia e per l’inadeguatezza del sostegno del governo», mi confida Maria (nome di fantasia) rendendomi partecipe del suo dolore mentre aspetto in piedi, in una sala vuota e silenziosa, le pizze d’asporto che ho ordinato. «Mi sento male - prosegue - quando penso alle conseguenze della chiusura per i miei dipendenti e per le loro famiglie. Ho delle bollette da pagare, il fitto del locale, ho tante spese vive che devo affrontare quotidianamente. I ristori del Governo sono una piccola goccia che non soddisfanno il mare di bisogni concreti. Siamo invisibili e mi viene da scappare». La pizzeria di Maria, nel quartiere popolare di San Giovanni a Roma, è solitamente molto frequentata e molto spesso riempie con facilità gli oltre 120 coperti.

Mentre Maria si allontana per passare il mio ordine al pizzaiolo, mi metto a pensare con commozione ai tanti e alle tante “Maria”, violentemente colpiti dalle conseguenze della crisi sanitaria, che oggi si ritrovano impotentemente risucchiati in una voragine oscura arredata di sfiducia, di rassegnazione, di smarrimento, di rottura e di depressione. Purtroppo, la crisi sanitaria è sfociata in una crisi economica che si sta ferocemente colpendo le fasce meno tutelate come le donne, i giovani, i lavoratori con partite Iva, i precari, i senza casa, le persone anziane, ecc. che da anni sono attanagliati dalla precarietà esistenziale.

Questi tanti e queste tante “Maria” stanno raggiungendo, in quella voragine oscura, molte persone che da anni abitano nelle crepe delle disuguaglianze sociali e nell’invisibilità del confinamento della disperazione. Tuttavia, lo spirito individualistico sembra spingere chi dimora in quella voragine (pur condividendo le medesime condizione di privazione materiale e di deprivazione immateriale) a cercare soluzioni individualistiche per salvarsi. Eppure, sono proprio in quei momenti bui che occorrerebbe coltivare un senso di comunità se si desidera davvero uscire collettivamente da quell'abisso. Come ha scritto Marx «la comunità, contro la cui separazione da sé l’individuo reagisce, è la vera comunità dell’uomo, la natura umana».Mentre sono immerso in questa riflessione, vedo Maria tornare con le pizze sfornate. Nel consegnarmele mi guarda e con un sorriso mi ringrazia per averla ascoltata. In realtà, sono io a ringraziare Maria per avermi confidato il suo stato d’animo e di essersi fidata di me. In un contesto di materialismo relazionale, l’ascolto è certo indispensabile ma non sufficiente.

Oggi dobbiamo avere un senso d’empatia umana e immedesimarci nel battito del cuore di chi è asfissiato dai bisogni pressanti e acuiti dalla pandemia. Questo ci consentirà di trasformare la rassegnazione e lo smarrimento individuali in un’azione collettiva, dentro una dimensione di comunità, capace di dare concretezza ai desideri. Questo senso di comunità, intrinseco nella natura umana, è da anni bersagliato da un sistema economico retto sulla produzione di beni finalizzati al mero consumo anziché «produrre beni relazionali», come sostiene l‘antropologo Marco Aime. Infatti, l’architettura della società è fondata sulla bulimia del consumismo che distrugge la natura e piega ogni relazione umana alle ciniche logiche dell’utilitarismo. Tuttavia, questo modello è oggi duramente messo alla prova dalla crisi sanitaria. Questa comprensione non può essere data per scontata ma deve essere una premessa per liberare le nostre menti dall’utilitarismo relazionale e per spronare il nostro intimo a scoprire una dimensione di respiro collettivo capace di dare ossigeno ai tanti bisognosi, sempre più invisibili, che la politica stenta concretamente a curare.