No, il meglio non deve ancora venire. Colloquio con Allen Sinai

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Allen Sinai, consigliere bipartisan di tre presidenti nonché della Fed, oggi a capo di Decision Economics con l’ufficio a fianco della Trump Tower, era fino all’inizio del 2020 convinto che il ciclo positivo dell’economia americana che dura da undici anni, sarebbe continuato ancora. Ora meno.

Sulla trasmissione dell’epidemia in senso clinico sappiamo ormai tutto. E sul contagio economico?
«Per la Cina è un disastro. La crescita di quest’anno sarà quasi dimezzata, dal 5,8 previsto a 3,5 per cento che per Pechino equivale a una recessione, e forse meno. Il virus procede in fretta e così le chiusure delle attività economiche. Le misure della banca centrale - dal ribasso dei tassi all’iniezione di liquidità - sono insufficienti. Altri mercati dell’Estremo Oriente, si è già visto in Giappone, saranno pesantemente danneggiati. Per l’Occidente i problemi sono venuti prima sul turismo, quindi sulle forniture intermedie, ora è scoppiata la crisi degli utili delle aziende che non solo producono ma vendono in Cina. Il caso Apple è emblematico ma non è certo il solo».

Ci sono Paesi più esposti?
«Tutti quelli inseriti a pieno titolo nella filiera del valore che comprende la Cina: Usa, Germania, Francia, Italia, Australia. L’importanza della Cina nell’economia mondiale è enorme, è il 17 per cento del Pil globale contro il 3 per cento del 2003, ai tempi della Sars. Noi abbiamo calcolato che nell’economia mondiale - monitoriamo 47 Paesi pari al 93 per cento del Pil - la crescita perderà nel primo trimestre da uno a due punti percentuali. Visto che la previsione iniziale era di poco superiore al 3 per cento si rende conto del danno».

Per gli Stati Uniti cosa prevedete?
«Lo scenario “Disappointing Growth”: crescita sì ma ridotta, anche se meno rispetto all’economia globale. Dal 2,4 per cento previsto inizialmente al 2. Ma può andare peggio. Le possibilità di un danno profondo all’America oggi sono del 25 per cento. In casi come questo è decisivo l’effetto dell’incertezza su tempi e gravità rispetto ai comportamenti. È una situazione che abbiamo osservato quando scoppiò la guerra in Iraq nel 2002: i consumatori e le imprese erano paralizzati di fronte alla tragedia».

Tutto questo avrà effetto sulle elezioni?
«Bisogna intendersi sul significato dell’economia in campagna elettorale. C’è chi dice che è tutto, invece io non credo che gli americani scelgano solo sulla base del portafoglio, valutano anche l’uomo. E il personaggio è quello che è, fonte di imbarazzo specialmente a livello internazionale. Certo, l’economia è, o era, la sua arma vincente».

Su cosa punta di più?
«Sulla riforma fiscale. Era stata la sua carta contro Obama, e da allora non ha smesso di dipingere i Dem come il partito delle tasse. Si stima che negli anni 2018, 2019 e 2020 gli sgravi generino un incremento del Pil rispetto all’ipotesi di una loro assenza, rispettivamente dello 0,3, 0,5 e 0,2 per cento. Un contributo all’economia di oltre 800 miliardi, permanente e non transitorio come invece era accaduto in passato, a partire addirittura da Kennedy».

Due sono le obiezioni: ne hanno beneficiato solo i ricchi, e porta a un boom del debito pubblico.
«Infatti ci si attende l’estensione ai ceti meno abbienti, e se non lo farà l’arma gli si ritorcerà contro. Sul disavanzo, è cresciuto ma a conti fatti meno del previsto grazie agli effetti sul gettito dell’aumento di crescita e inflazione, alla riduzione di alcuni programmi governativi (qui si apre il problema dell’assistenza sanitaria), al rimpatrio di capitali grazie allo scudo fiscale. Luci e ombre che la macchina propagandistica di Trump ora cercherà di modulare, anche con qualche forzatura».