Il primario di Medicina generale dell'ospedale San Raffaele di Milano: si faccia dove è possibile, con il sostegno di Stato e Regioni. Occorrono subito posti letto di rianimazione e degenza semi-intensiva

Contro la diffusione dei contagi da coronavirus e per salvare Milano e la Lombardia, i medici lanciano un appello affinché le industrie con produzioni prossime possano essere convertite urgentemente alla fabbricazione di protezioni individuali, come mascherine e tute, e di apparati per l'ausilio alla respirazione. «Certamente, laddove fosse possibile», dice Moreno Tresoldi, primario di Medicina generale e delle Terapie avanzate all’ospedale San Raffaele di Milano, «questo tipo di conversione, eventualmente attraverso un sostegno tangibile delle istituzioni, sarebbe di grande aiuto. Anche per le apparecchiature di ausilio alla respirazione che possono consentire, se impiegate nella fase precoce del danno polmonare, di ridurre la necessità della ventilazione meccanica».

Cosa vi serve e cosa dobbiamo fare noi "fuori"?
«La risposta più immediata è il sostegno economico per realizzare le strutture necessarie a far fronte all’emergenza. Occorrono posti letto di rianimazione e di degenza semi-intensiva, come il reparto che dirigo, ma occorrono anche strutture dove accogliere i pazienti che superano la fase acuta e critica della malattia, che non possono ancora rientrare a domicilio, ma non necessitano di cure intensive. L’obiettivo attuale è di individuare una cura efficace che riduca la percentuale di pazienti che necessitino di essere trattati in rianimazione e verosimilmente che aumenti la percentuale di pazienti che, per gravità clinica, richiedano ospedalizzazioni più prolungate. Abbiamo bisogno di strutture idonee dove indirizzarli. L’auspicata fase di “attenuazione della malattia” con tempi di guarigione potrebbe richiedere uno sforzo organizzativo e strutturale più consistente di quello che stiamo affrontando in questa fase dell’acuzie della malattia».
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Che parole ha usato con il personale per spiegare la situazione?
«Ho il privilegio di avere al mio fianco collaboratori, medici, infermieri professionali e operatori sanitari straordinari. Non c’è stato bisogno di spiegazioni ma semplicemente è bastato comunicare che eravamo chiamati a gestire l’emergenza. Nel lasso di tempo di un turno di lavoro abbiamo trasferito in altri reparti o dimesso cinquantatré pazienti ed eravamo pronti ad accogliere i primi pazienti Covid-19. Il reparto si è riempito in poche ore».

Cosa dite ai malati?
«Sono tutti spaventati e l’isolamento non li aiuta. Non incontrano più uno sguardo familiare e visitarli indossando i dispositivi di protezione individuale non facilita a stabilire un rapporto. Tuttavia il prendersi cura di loro con grande attenzione li rassicura e riduce le distanze e in queste circostanze è questo il messaggio più importante, piuttosto che la comunicazione verbale».

Cosa ha provato quando, mentre voi di giorno in giorno stavate riorganizzando l'attività ospedaliera per far fronte all'epidemia, migliaia di cittadini continuavano ad affollare locali, Navigli, parchi?
«Si può interpretare questo atteggiamento in due modi e nessuno dei due ha aspetti positivi. Il primo è che le persone hanno dato scarsa considerazione ad un evento che non li aveva ancora colpiti e mi fa pensare ad una certa dose di egoismo. Il secondo che una parte non irrilevante delle persone non è in grado di distinguere, nei fatti che accadono, ciò che è veramente importante da ciò che è finto o senza alcun peso. Ecco che allora per due fatti, di cui uno estremamente importante, si adotta lo stesso metro e i messaggi vengono rapidamente metabolizzati e messi da parte».

Quando si è reso conto che la Lombardia era al centro dell'emergenza?
«La rapida escalation di casi nell’originaria area rossa, nonostante le misure per circoscrivere la diffusione del contagio, e le prime segnalazioni nell’area milanese sono state sufficienti per rendersi conto che la regione avrebbe subito un pesante coinvolgimento. Il 22 febbraio eravamo già al tavolo di crisi istituita dalla direzione sanitaria per discutere delle misure da prendere».

Momenti di soddisfazione in questi giorni? E di sconforto?
«Certamente il primo paziente dimesso che ci ha chiesto di fissare il momento con una foto collettiva insieme con tutto lo staff. Più che di sconforto parlerei di impotenza: a fine turno, quando percepisco negli sguardi stremati dei miei collaboratori tutta la tristezza per i loro pazienti che non ce l’hanno fatta e per le scelte dolorose che abbiamo dovuto prendere».

Ha paura per sé e per i suoi cari?
«La risposta alla prima parte della domanda è la più difficile, per il semplice fatto che non ho proprio pensato alla eventualità. Se accadrà, mi comporterò come consiglio di fare ai miei pazienti che mi contattano in queste ore perché accusano sintomi simil influenzali. Se sono lievi, febbre e tosse, consiglio di restare a casa assumendo antipiretici e qualche precauzione in più rispetto ai familiari: mascherina, distanza sociale, lavarsi più spesso le mani. In caso di peggioramento dei sintomi o di difficolta respiratorie consultarsi con il medico di base sull’opportunità di recarsi in pronto soccorso. Per i propri cari il discorso è diverso. Non si è mai lucidi e quando prevale il legame affettivo, le indicazioni sono le stesse ma l’ansia e la preoccupazione aumentano»