Prima di entrare nel cuore della conversazione sull’amore ai tempi dell’apocalisse, Matteo Zuppi, da cinque anni arcivescovo di Bologna, nominato cardinale sei mesi fa, una vita in seno alla Comunità di Sant’Egidio ad aiutare i bisognosi e fare pace là dove sono in corso le guerre, vuole fare una premessa di strettissima attualità, ma con implicazioni generali e filosofiche. Eccola: «La sospensione delle messe pubbliche è un fastidio per molte persone, fa arrabbiare qualcuno. Ma altrimenti rischiamo di diventare untori, e in questo caso, la differenza fra unto e untore è minima, anzi, puoi essere ambedue le cose».
Come cambia l’amore ai tempi dell’apocalisse? Fino a pochi giorni fa abbiamo spesso parlato di catastrofe. L’abbiamo fatto anche noi due, in una conversazione sul nichilismo, qualche anno fa su questo giornale. Ma ora siamo davvero alle prese con un grave pericolo che non conosciamo. L’impressione è che sia accaduto qualcosa di definitivo. Non lo sarà, perché niente mai è definitivo, ma abbiamo paura. E allora dov’è l’amore?
«L’apocalisse mette alla prova l’amore, perché è facile voler bene quando le cose vanno bene, quando il Male è solo un’ipotesi teorica e l’abitudine o un ottimismo ingiustificato fanno credere che le cose capitano sempre agli altri. Ma quello è amore fragile, talvolta avaro perché l’amore vero si misura con il suo contrario: il Male, e si misura sempre. Per me, l’amore vero, quello che si manifesta nella natura e nell’esperienza più importante degli umani è quello del Vangelo, capace di dire: ama i tuoi nemici. Ci sono discorsi apocalittici di Gesù, per esempio quando viene detto che il discepolo si troverà davanti alle prove. E poi c’è il Libro dell’Apocalisse, scritto da San Giovanni, dove si parla di flagelli che vediamo oggi davanti a nostri occhi: sconvolgimenti di natura, stelle cadenti. Mi ha chiesto se è possibile amare ai tempi dell’apocalisse. Ecco, io sono convinto che l’amore sia l’unico modo per vivere nell’apocalisse».
La sua è una posizione da cristiano, uomo della Chiesa. Non tutti però siamo cristiani e neanche credenti. E allora, parliamo di un laico, di Albert Camus e del suo dottor Rieux, protagonista di “La peste”, esempio di un uomo che ama gli umani, nel modo appunto laico. Dopo la predica del gesuita, che dice: la peste viene per l’espiazione delle nostre colpe…
«La interrompo. Il gesuita, ed è lì il fascino della sua predica, stabilisce un rapporto fra causa ed effetto, cosa che nel Nuovo Testamento non c’è più. Gesù accetta il castigo, non lo dà, Dio non dà il castigo. Il gesuita stabilisce invece una ragione».
Infatti è un gesuita. Ma vorrei citare a la posizione di Rieux quando dice: «Io ho più simpatia per i vinti che per i santi». Per me, da non credente, è la memoria degli sconfitti l’elemento chiave della salvezza. Per lei è una posizione accettabile?
«Guardi, che Gesù sta dalla parte dei vinti. Dice: “Beati gli afflitti”. Pare un assurdo, chi è afflitto soffre. Ma saranno consolati. Nel Vangelo c’è la scelta degli ultimi, perché gli ultimi sono le prime vittime delle tante apocalissi, del mondo che si distrugge, che sconta la forza del Male. Papa Francesco dice che le cose si capiscono dalle periferie, con lo sguardo degli ultimi».
Sta descrivendo un Gesù laico?
«Certo. Gesù è molto laico. Parla delle categorie umane. Ovvio, esiste la fede che riconosce in Gesù il figlio di Dio, ma poi c’è una lettura di Gesù laica. In questa lettura si sono riferimenti in cui i credenti i non credenti si possono trovare d’accordo».
Ha detto prima che il contrario dell’amore è il Male. E la paura no? La paura ci rende indifferenti nei confronti degli altri, degli immigrati, dei malati, delle vittime delle violenze.
«La paura è un sintomo, un segnalatore. Registra la difficoltà. Può essere utilizzata dal Male per costruire prigioni, alzare i muri, per non farti trovare le risposte alle domande. Ma non registrare la paura vuole dire essere incosciente dei pericoli. Vede, l’apocalisse ci riempie di paura. Però, insisto nella lettura del Vangelo, anche Gesù ebbe paura. Di fronte alla morte provò tristezza e angoscia. Non era un intemerato che affrontava il Male senza la fatica di cercare e risolvere il problema. E lo risolve amando gli altri più di se stesso. Amare gli altri più di se stessi è qualcosa di profondamente umano».
Ne è sicuro? Davvero si può amare altri più di se stessi, al di fuori dalla cerchia familiare, dei figli o nipoti?
«Sì. I combattenti nel ghetto di Varsavia, hanno potuto fare quello che hanno fatto perché amavano gli altri più di se stessi. E poi, legga le “Lettere dei condannati a morte della resistenza”. Sono strazianti. Questi uomini hanno paura della morte, ma è chiaro che hanno fatto le cose per altri: parlano della patria, della libertà, dei figli».
Fra i combattenti del ghetto c’era anche amore erotico, fisico ed è stato di grande aiuto. Ma vorrei citare lo scrittore Amos Oz. Diceva spesso che l’amore è curiosità. E che la curiosità è apertura al mondo, quindi amore è una forma di intelligenza. È d’accordo?
«Assolutamente. Ma attenzione. Sant’Agostino dice che l’amore ci fa vivere le cose di sempre in una maniera sempre nuova. Potrei anche citare “Il piccolo principe” di Antoine de Saint-Exupéry, dove si parla dell’importanza del rito. Il rito è dire: io so che lui arriva a quell’ora. L’amore non è solo grande passione, ma anche abitudine, ordinarietà. La curiosità resta, ma l’amore coniuga l’ordinario e lo straordinario, la conoscenza alla curiosità. Vorrei aggiungere una considerazione da credente: l’amore per il prossimo non annulla l’amore per te stesso. Lo dico, perché nel passato questo concetto non era chiaro. Per molto tempo per amare Dio dovevi annullare te stesso. Ma erano altre generazioni. Oggi, c’è il pericolo opposto, l’ipertrofia dell’io».
Vorrei chiederle se l’amore è apertura agli altri, agli sconfitti, ai migranti.
«Al prossimo».
Chi è il prossimo?
«È un’indicazione senza categoria specifica. Lo insegna Gesù nella parabola del buon Samaritano. Il mio prossimo è l’altro. Punto».
Siamo arrivati così a parlare dell’amore compassionevole e di carità. Ma anche dei diritti. La carità è un dono volontario, come l’elemosina, per i diritti si lotta invece con la consapevolezza che l’altro è esattamente come me.
«Infatti l’altro è come me. Fai agli altri quello che vuoi che si faccia a te. Il Vangelo lo possiamo interpretare anche come un messaggio che dice: se dai i diritti avrai i diritti, reciprocità assoluta. Se fai carità avrai misericordia. Il problema nasce quando riduciamo la compassione o la carità a un gesto unilaterale e che guarisce la ferita ma non cura la cause. E la Chiesa lo ha fatto per molto, troppo, tempo. La compassione e la lotta per i diritti sono per me complementari. Compassione è farsi carico di una situazione. Torno ai combattenti nel ghetto. Loro hanno combattuto il nazismo e il razzismo non solo perché non gli piaceva l’idea. Ma hanno detto: il razzismo non può essere tollerato perché ne abbiamo visto le conseguenze. E poi, mi creda: conviene investire nella compassione, perché siamo tutti fragili».
Abbiamo cominciato questa conversazione con il fatto che in tempi di coronavirus non si possono fare messe pubbliche. Si rischia così di far venire meno il sentirsi comunità. E infatti, se non siamo comunità è difficile essere solidali con malati, ma anche i detenuti, con gli ultimi.
«Se siamo delle isole, penseremo solo alla nostra isola e cercheremo di difenderla, di evitare che qualcuno entri non desiderato. Però l’uomo non è un’isola, come diceva Thomas Merton. È una tentazione del Male ridursi a un’isola».
Come conciliare allora l’appartenenza alla comunità e cittadinanza? La cittadinanza è laica, la comunità, però spesso per la Chiesa significava comunità cristiana.
«Potrei citare “La lettera a Diogneto”, uno dei primi documenti dei padri della Chiesa. Che cosa è un cristiano? È cittadino di un Paese ma anche di tutti gli altri Paesi. Ha una patria ma è anche di un’altra patria. Il vero cristiano vive la dimensione nazionale? Sì, ma vive anche l’universalità. Le difficoltà a comprenderlo sono le ultime eredità della cristianità, un’epoca e una formazione culturale in cui si volevano far coincidere le due cose: per esempio, l’essere italiano voleva dire essere cristiano. Ma papa Francesco lo ha detto incontrando la Curia romana nel dicembre scorso: la cristianità è finita. La Chiesa è una delle tante realtà nel mondo laico. Aggiungo, la cristianità non sempre ha coinciso con il Vangelo, spesso lo ha tradito. Nel passato la Chiesa ha avuto difficoltà ad accettare la laicità, oggi invece ne è il garante. Ma non è una laicità asettica. È una laicità che non cancella Dio».
Ha usato la parola asettico. Lo abbiamo accennato parlando dei combattenti del ghetto. L’amore implica eros.
«Nel passato una lettura esponenzialmente geometrica arrivava a maneggiare con tanta cura l’eros da farlo diventare pericolosamente peccato o da dargli il senso del peccato. Attenzione però, al contrario. Un eros che non corrisponda a una maturità spirituale dell’amore può creare disastri. La generazione cui apparteniamo io e lei ha fatto esperienza di questo tipo di eros. E anche quando non ha fatto male, non ha fatto bene. Pensi all’aspirazione del possesso dell’altro, a tutti quegli uomini che non hanno mai imparato a voler bene alle donne. Guardi, l’amore di se stessi è qualcosa di più profondo di un’azione compulsivamente fisica o che non corrisponde a quello che abbiamo veramente dentro il nostro animo e cuore».
Il sesso non è peccato?
«Se il nostro Signore ce l’ha dato, vuol dire che voleva farci un dono. Ma bisogna saper viverlo bene».
Come fare per sopravvivere spiritualmente, al coronavirus?
«Cercando di capire che siamo tutti nella stessa barca. Dobbiamo aiutarci per sconfiggere il coronavirus e tanti altri virus. Abbiamo bisogno degli altri per farlo. E poi, nell’apocalisse è evidente che bisogna sempre alzare lo sguardo. Lo dice Gesù, mentre la paura ti fa ripiegare, affronta l’Apocalisse. Affrontandola trovi il senso dell’amore».