A lungo è stata negata. Dalla tecnologia, dal virtuale, dall’ideologia dell’impalpabile. Ora la sua importanza riemerge, potente. Nei malati, certo, ma anche negli abbracci negati e nei corpi rinchiusi

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In una via dietro il carcere di San Vittore a Milano, dove solo qualche giorno fa si alzava fumo nero da materassi incendiati, ho assistito a un’installazione che non voleva esserlo. Sul muro dove da sempre vengono affissi annunci di concerti, spettacoli, eventi teatrali a centinaia, ora erano abbacinanti decine e decine di manifesti, bianchi, il logo del comune in nero e la scritta severa dei necrologi pubblici: “Spazio non assegnato”. Nessuna pubblicità affissa, poiché non succede più nulla. La certificazione della spettralità. Una sospensione delle attività. L’indicazione, né pudibonda né pietosa, della città disincarnata. Che infatti sembra un immane fossile, un nautilus concentrico privo di muscolo, di corporeità. Non c’è nulla di selvatico in questo vasto osso radiale che è la città cava e svuotata. Svuotata di cosa? Potremmo dire: dei corpi. Ma vogliamo dire di più: della carne.

Il nostro sguardo è piegato ora a vedere la carne ovunque. Viviamo il ritorno della carne. Non si vedono i corpi nascosti nei penetrali delle terapie intensive, ma si percepisce la carne che soffoca. Negli obitori sovraffollati, si immaginano corpi anonimi in massa, cioè la carne. I corpi, cancellati dalla pubblica circolazione e immaginati nel confino delle case nella metropoli, avvicinano all’esperienza totalizzante della carne, che è qualcosa di più informale e misterioso del corpo. Nei corpi sotto isolamento, che si azionano per mantenersi in forma o generano jogging meccanici, il regno della carne è stimolato, colpito, convocato nella sua totalità. Il corpo mostra gli affetti, la carne evidenzia l’anima. L’incubo dell’estinzione, che aleggia in queste ore costellate di perdite così numerose e dolorose, è una fantasia che riguarda qualcosa di sostanziale e ubiquitario: ed è la carne. La carne, ovvero il fenomeno materiale e la potenza teologica del vivente, è il regno in cui siamo immessi, è il nostro esilio e mai del tutto il nostro eden. È ciò con cui il sistema, precedente il contagio, non permetteva di fare i conti. Sembra di avere vissuto anni, decenni di progressiva disincarnazione. Il sistema economico, che produceva disincarnazione e dissociazione, era disumano a partire dal fatto che non era carnale e non tollerava i sussulti e i sogni della carne, cioè le ribellioni, i forti dinieghi, le ipotesi del rovesciamento. Alla scomparsa dei fatti, alla digitalizzazione progressiva degli affetti e delle conoscenze, è corrisposta un’astrazione della carne. La carne è un fatto sensibile spirituale. L’incarnazione è il mistero a cui siamo posti di fronte, come un sole equivoco che ci illumina il volto accecato. Adesso siamo strappati dalla distrazione, siamo riportati alla carne.

Ecco le visioni della carne.

Scena dei morti. Nella chiesa di Ognissanti a Bergamo, all’interno del cimitero, appoggiate alle pareti, stipatissime, a pochi centimetri l’una dall’altra, un centinaio di bare sigillate con lo zinco, una fitta sequenza, occupano tutto lo spazio sacro, fin sotto l’altare, sono squadrate e noi non vediamo i corpi, ne ricaviamo l’idea confusa della carne, pronta a disfarsi, già si disfa. Nessuna identità, nessuna storia, la distanza siderea dallo sguardo dei cari: nessun corpo. I parenti non hanno potuto nemmeno posare lo sguardo sull’ultima immagine dell’amato. I corpi sono stati inseriti velocemente, appena cadaveri, nudi o con un pigiama indosso, nel sacco a barriera biodegradabile. Privata dei nomi, trionfa la carne, con la sua mestizia, nel suo aspetto funebre. Nutre il feretro. Sarcofago viene dal greco, significa: mangiare la carne. Non l’anima è qui reale, ma la carne. L’anima è qui cenere, la carne è fiamma.

Scena dello spirito. Il pontefice, nel vuoto di via del Corso, a piedi, solo, la scorta a distanza, bianco che abbacina, incede zoppicando, l’anca destra deve essere dolente, il volto della terza età è un ripiegarsi della pelle su se stessa. Il Papa porta su di sé tutto il mistero della carne, dell’incarnazione. Non convoca il corpo, ma la distesa della carne, di ogni carne, di ogni fibra, muscolo, nervo, che testimoniano un principio trascendente. Chi dà vita alla carne? Non ci sono letteralmente parole. La parola è un regno che incrocia la carne, la precede e ne suppura. La testimonianza della carne, in questi passi difficili del pontefice, diventerà pure un’immagine, evocativa o contestata, ma non è la solita immagine: l’immagine prende qui carne, non si risolve nella sua natura immateriale e volatile. La carne fa restare l’immagine nella storia.

Scena delle carceri. Che cos’è un carcere? Doveva essere una correzione per migliorare, è diventato il cupo teatro della vendetta della società, si è trasformato in una dimenticanza collettiva. Chi fino a ieri pensava alle prigioni? È divenuto il luogo della carne. Una miriade umana in cui prolifera facilmente ogni contagio. I decreti hanno ridotto a carne i detenuti, hanno loro tolto la possibilità di vedere i propri cari. Pensiamo a vasche orrende dove la carne è accatastata, l’infezione più virulenta, la disperazione più atroce. Non abbiamo visto la ribellione dentro le prigioni, il vomito della carne, abbiamo intuito le colonne di fumo, sono stati contati i morti, abbiamo visto corpi anonimi in controluce sopra i tetti. Il formidabile numero di chi è costretto lì conferma l’idea che in carcere si va a marcire, come ribadiva un celebre ex ministro dell’interno. Chi ha pronunciato su questo una parola umana?

Scena coniugale. L’avvocato divorzista è stupefatto, ha molto da lavorare. È raggiunto telefonicamente da una percussione. Si candida a essere tutelata da lui una clientela numerosa e inaspettata. Dice: «Richiesta di dodici pratiche di divorzio in cinque giorni». Non si capacita. La carne ribolle all’interno, si slaccia, si separa. La reazione allo sfregamento dei corpi e delle psicologie, reclusi in quarantena insieme, prova che non erano più abituati alla vicinanza, al contatto continuo, alle tristezze della carne. A Wuhan si è rilevata un’esplosione di cause per divorzio e di violenza domestica. Il fenomeno è generalizzato, perché la carne è triste.

Scena cinese. Quanti sono? Chi sono? Tutta la Cina è una totalità della carne. Una carne itterica, formicolante: un miliardo e mezzo di individui indistinguibili, ridotti a un’unica massa, a un’immane pasta umana, dalla macchina disincarnata di un partito ineffabile, una supremazia né celeste né terrestre, che guarda l’immenso reame della carne e ne è guardata.

Abbiamo vissuto per anni l’eresia di una carne compatta ma priva di attenzione, solida ma senza organi, sanguinante ma senza sangue, affamata ma senza fame, che mangiava ma senza denti, che parlava ma senza lingua e con una fantasmatica parvenza di voce. Il mistero dello spillover, il salto di specie del virus, riporta a questa fibrosità misteriosa. Sarà la carne a uscire dall’epoca del contagio, essendo stata messa in forse? Bisogna considerare e sentire che essa esiste, prima di capire che è debole e che lo spirito deve essere pronto.