Questi corpi vivi e veri, veri e morti, sono fratelli. Entrano in noi, perché coloro che non vedono vedano
E quindi eccoci, dove l’occhio non vuole arrivare, o lo vuole maniacalmente, dove desidera la cecità e ritiene di vedere la luce nel buio dei giorni più tristi. Il nostro sguardo è ovunque, ma prima che altrove ora è qui, nella città silente. Bergamo da sempre è una lezione morale. Qui, in questi giorni, la storia e il mito si sono incaricati di comminare la sofferenza alle nostre sorelle, ai nostri fratelli, fornendo al contempo il dolore agli ultimi spettatori distratti. Si vede recapitato a casa il dolore chi ancora viveva in uno stato storico precedente, ormai finito. La distopia è diventata il presente. Gli alti penetrali della terapia intensiva sono qui violati e incidono queste ore in una memoria affranta, definitiva. Da quanto tempo la nostra memoria non era affranta, definitiva?
Abbiamo spiato i corpi in pronazione nei video delle trasmissioni più coraggiose, che hanno mostrato o lasciato intuire i morti. La piccola chiesa di Ognissanti, stipata di bare e corpi tolti dalla vista di chiunque: dei parenti, degli amici, del prete, di chi riprende questa sfilata dell’orrore - e infine di noi, gli spettatori, per una volta non osceni. Non c’è oscenità nella morte fraterna.
Dobbiamo compiere le opere per cui siamo stati mandati qui finché è giorno, poi viene la notte, quando nessuno
può più operare. Ma qui si opera notte e giorno, indifferentemente. C’è soltanto questa luce artificiale, un tempo scandito non dalle ore, ma dalle emergenze, quando all’improvviso i pazienti stabilizzati subiscono il tracollo. Un tempo continuo, senza albe né tramonti conferma l’ospedale come scena del mito: chiamiamo infatti i medici e infermieri con l’appellativo antico di “eroi”.
Ecco dunque le immagini, queste formule genuinamente antiche di un’intensificata espressione fisica o psichica. Esse tornano, le avevamo dimenticate e rimosse, ma eccole nuovamente. Forme ad alta tecnologia invasiva e a intensa pietà umana. L’anziano, su una barella sotto ossigeno accanto alla bombola bianca alta due metri, è il medesimo che stringe il polso alla dottoressa con i guanti in lattice ed è china su di lui? Quante eroine, quanti eroi contiamo qui? Degli intubati non vediamo le polmoniti interstiziali, ma conosciamo il respiro affannato, viviamo questi giorni ascoltandone la dispnea, come in una allucinazione continua. I loro corpi distesi impongono l’umano vincolo. Corpi solitari tutti insieme - è un paradosso drammatico, sono separati nei letti insieme, sono separati insieme dai dispositivi di protezione.
Quanti sognatori ci sono dietro i caschi per la respirazione e quanti dietro gli scafandri? La lotta e l’unione tra solitudini e fratellanze raggiunge l’acme nell’ospedale. Solo un ospedale mostra che cosa è la guerra. La morte vera di chi sta morendo e quella prospettata a tutti coloro che assistono a queste immagini dell’urgenza. L’urgenza in questa terapia intensiva è la misura dell’impotenza. Soffrono la pena interiore gli operatori sanitari, mentre innestano le macchine nei corpi. Sono l’immagine più pura del nostro presente, una transizione dall’uomo naturale all’uomo assistito, che da adesso si incastona nella storia della specie: un miliardo e settecento milioni di umani in contenzione, il pianeta che in questi giorni urla avendo per epicentro Bergamo e le lacrime e la voce incrinata del suo sindaco Giorgio Gori. Questi corpi veri e vivi, veri e morti, che vediamo per la prima volta, entrano in noi perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi.