Deserto. Esilio. Ma anche cambiamento, speranza radicale. Tra silenzio e attesa di una fase nuova nella lotta al coronavirus, Pasqua 2020 riacquista il suo senso originario
Le tenebre e la luce sono per i cattolici l’atto di inizio del rito della notte di Pasqua. Per tradizione nella chiesa interamente al buio entra il celebrante con un cero acceso, una timida fiamma che rompe l’oscurità, alzata tre volte, a simboleggiare la lotta tra la morte e la vita, a fare memoria del cuore della fede cristiana: l’uomo chiamato Gesù di Nazareth, giustiziato sulla croce, è stato sepolto e la sua tomba è stata chiusa e sorvegliata. La sua storia dovrebbe finire così, ma la pietra è rotolata e il sepolcro è vuoto, le donne che lo hanno visto ripetono l’annuncio: il maestro è risorto, non cercate tra i morti colui che è vivo.
Per la prima volta, in questa Pasqua 2020, al popolo dei fedeli sarà proibito di partecipare alla messa, le chiese in Italia e in tutto il mondo stravolto dal coronavirus resteranno buie. Niente lavanda dei piedi il giovedì santo, nella messa che ricorda il gesto di Gesù con i suoi discepoli nell’ultima cena, prima di essere tradito, niente via Crucis il venerdì, il racconto del processo e della crocifissione dell’uomo di Nazareth.
La conclusione di una settimana santa senza precedenti, segnata dall’assenza. O dai tentativi di spezzare il silenzio in cui è piombata da più di un mese la comunità dei credenti. Nella chiesa San Pio X del quartiere romano della Balduina, di buona borghesia, il parroco don Andrea Celli per la domenica delle Palme ha celebrato una messa fuori dal tempio, sul tetto, affacciato sulla piazza del quartiere. I celebranti in stola rossa sotto un sole caldo sopra i palazzi, come i Beatles nello storico concerto improvvisato, la loro ultima esibizione, quando Paul McCartney cambiò le parole di “Get Back”: «Siete andati ancora a suonare sul tetto, e questo non è bello, sapete che non fa piacere alla vostra mamma, si arrabbia, vi farà arrestare tutti! Tornate indietro!».
Il vento sfoglia il leggìo, fa frusciare i paramenti rossi, due mollette reggono la tovaglia sull’altare. Passa la polizia, le persone assistono al rito dal balconcino di casa o pregano sul marciapiede, con le buste della spesa in mano. Su un terrazzo si litiga, nella piazza si sente urlare: «Mettiti la mascherina, delinquente!». Un parrocchiano, l’attore Mino Caprio che presta la voce al cartone Peter Griffin, legge il racconto della morte di Gesù. Il tradimento con un bacio, «amico, per questo sei qui», la prossimità della fine, «l’ora è vicina», la solitudine di fronte alla sofferenza e alla morte: «Dio mio, perché mi hai abbandonato?», chissà chi lo avrà ripetuto in queste settimane di dolore, di respiro che si spegne, di salvezza impossibile. Il corpo destinato a sepoltura clandestina. «Sigillarono la pietra», anche questo appartiene ora al nostro immaginario prostrato, in quella file di bare, di camion militari, carichi di poveri morti senza compagnia.
La chiesa del Giubileo progettata da Richard Meier e inaugurata nel 2003, a Tor Tre Teste, periferia popolare, è incastrata tra i palazzoni, dai terrazzi pendono tre bandiere tricolori estenuate, «ti amo Lorenzo», c’è scritto sul muro di fronte. L’edificio è bianco, disegnato come una nave con tre vele, ci sono solo due persone inginocchiate, con la mascherina. Alle pareti le disposizioni della Curia volute dal Vicario del papa per Roma Angelo De Donatis, l’unico cardinale finora colpito dal coronavirus. È stato lui a chiedere che si chiudessero le porte delle chiese romane, oltre a vietare le celebrazioni, smentito la mattina dopo da papa Francesco: «Le misure drastiche non sempre sono buone». [[ge:rep-locali:espresso:285343876]] Sui banchi ci sono i segni con lo scotch da pacchi per segnare la distanza, il confessionale con la stola viola abbandonata è asettico come un laboratorio di analisi. Dietro l’altare c’è una reliquia di Giovanni Paolo II, un frammento del lenzuolo con il sangue del papa ferito nell’attentato di piazza San Pietro del 1981, medioevo e modernità. In una cassetta ci sono i bigliettini scritti a mano, post it gialli, disegni, richieste di aiuto, preghiere: «Aiutami ad accettare la morte dei miei genitori, senza di loro mi sento persa». «Maria sorreggi tutte le donne del mondo affinché nessuna violenza sia perpetrata nei loro confronti». «Che si risolva un problema giudiziario». «Per il piccolo Danny che ancora ricoverato al Bambin Gesù». «Aiutami Mammina».
Alle sette di sera risuonano le campane in tutta Trastevere. «I poveri della città si sono chiesti: perché Roma è vuota? Non lo avevano capito, non seguono le notizie, hanno visto che la gente all’improvviso era sparita. Noi dobbiamo offrire una casa», dice don Marco Gnavi, il parroco della basilica di Santa Maria, tra le più antiche di Roma, dove ogni sera c’è la preghiera della Comunità di Sant’Egidio, ora in streaming. «Abbiamo imparato a fare gli esercizi spirituali con zoom, le preghiere per i defunti su whatsapp». Nelle ceste ci sono i rametti di ulivo sanificati, nelle cappelle laterali a richiesta si riceve la comunione, le distribuiscono i preti con i guanti neri, come se fossero prestigiatori, o rapinatori. In fondo, sull’altare, c’è il Cristo incorniciato dalle candele. Come in tutte le chiese che fanno parte del paesaggio italiano, testimoni dell’arte e della bellezza ma anche delle nostre cicatrici più recenti. [[ge:rep-locali:espresso:285343383]] Ogni duomo, cattedrale, basilica o chiesetta racconta una storia non solo religiosa, ma civile. La Basilica superiore di Assisi, squassata dal terremoto del 1997. La cattedrale di Palermo, dove c’è la tomba di don Pino Puglisi, ucciso dalla mafia «in odio alla fede». Il duomo di Sant’Andrea di Venzone in Friuli, il borgo più bello d’Italia, nel paese della lavanda e della zucca raso al suolo dall’Orcolat, il risveglio dell’orco nascosto nelle montagne, il terribile doppio sisma del 1976, oggi ricostruito sasso su sasso, ricollocando per quasi venti anni le pietre raccolte dove erano state per secoli. L’alternarsi sui muri di parti antiche e moderne, le crepe visibili come ferite su un corpo che riassumono la sofferenza e la capacità di riscatto di un popolo, le mani alzate verso il cielo dell’opera dello scultore Franco Maschio: “Dal profondo a te grido”. La metafora di ogni ricostruzione, materiale e spirituale: non si costruisce sulla tabula rasa, ogni ricostruzione è una rigenerazione che parte da quello che c’era prima. Il Duomo di Milano in cui furono celebrati i funerali delle vittime di piazza Fontana. L’Ospedale Giovanni XXIII di Bergamo, dove si muore e si combatte per la vita, che prende il nome del papa che ha reso familiare nel mondo l’accento della provincia più tormentata dal virus...
I vescovi hanno aderito con solerzia alle ordinanze governative, sono stati più docili degli imprenditori confindustriali. Hanno dimostrato di essere come tutti gli altri cittadini, impegnati a rispettare le misure anti-contagio, ma hanno faticato a trovare una modalità di presenza alternativa, al di là delle famiglie che pregano sul pianerottolo dei condomini, i rosari in streaming, le omelie su skype. Quasi che privati del pulpito venisse meno il loro ruolo, come ha sostenuto Matteo Salvini invocando la riapertura delle chiese, con il plauso dall’ala tradizionalista dei cattolici.
Una polemica rivelatrice, perché in realtà le chiese sono rimaste aperte in queste settimane, ma senza celebrazioni collettive. E deserte lo erano da tempo, in Italia e in Europa, e non per la paura del contagio. Per anni, in Italia, abbiamo assistito alla riduzione della religione a rosario da sventolare in campagna elettorale. La riduzione del sacro a funzione, a materialità, amministrata da preti che si comportano come burocrati statali. La religione zuccherosa, consolatoria, televisiva. Il cielo vuoto delle religioni e la terra vuota di appartenenze ideali sembravano contrapporsi e invece hanno condiviso la stessa caduta.
Politici, economisti, intellettuali, e anche gli uomini della chiesa e delle religioni hanno espulso lo spirito, inteso non solo come trascendenza ma come apertura laica, la disponibilità verso il cambiamento che è il cuore di ogni storia di salvezza, di ogni passaggio verso una nuova condizione. Si sono appiattiti sul presente, l’ansia dell’istante, che la paura e l’incertezza di questo tempo senza tempo ci hanno portato via. Hanno dimenticato un orizzonte più largo, il cammino, la marcia, il passaggio. L’attesa, coltivata dalle comunità e non dagli apparati, dai singoli gruppi più che dalle macchine organizzative. Chi crede, chi coltiva una fede anche laica sa che non è nel tempio che si trova Dio, ma in una brezza leggera. Non in una struttura il senso, ma nella coscienza di ognuno, quando è messa di fronte alla conoscenza del male, alla responsabilità, alla sconfitta, alla perdita improvvisa di ciò che ti dava fiducia.
Pasqua significa passaggio. Nella Pasqua 2020 è soprattutto l’attesa di passaggio dalla fase uno del virus alla fase due, di incertezza e inquietudine, per la crisi economica che è già arrivata a stravolgere le esistenze, i tanti progetti, le aspirazioni e per la terra ignota che riguarda le domande più profonde e angoscianti: quando tornerà un contatto, una stretta di mano, un abbraccio, un viaggio, una cena, quel che era dato per scontato e che è stato reciso.
Pasqua per il popolo ebraico è passaggio dalla schiavitù in Egitto alla terra promessa. «L’Esodo è il racconto dell’affrancamento e della liberazione espresso in termini religiosi, ma è anche un racconto storico, secolare terreno», scrive Michael Walzer in “Esodo e rivoluzione”. «Una storia politica decisamente lineare, un deciso movimento in avanti. L’Esodo è l’alternativa a tutte le concezioni mitiche dell’eterno ritorno, per cui gli uomini e le donne e le loro azioni nel tempo perdono la propria singolarità. Nell’Esodo gli eventi accadono solo una volta: una storia di speranze radicali e di impegno terreno».
Pasqua è passaggio in questo 2020 vissuto nel silenzio, nello svuotamento. Pasqua è il deserto che stiamo attraversando, l’esilio da noi stessi. Con la sua scia infinita di lutti, di chi non ci sarà più, di una mancanza che non conosce rimedio. Di isolamento e di distanza tra le persone, di spoliazione di ogni certezza. E di resistenza dello spirito, il grande dimenticato fino alla pandemia. Di senso profondo delle cose, oltre la superficie che ci soffoca, di umanità liberata. Aspettiamo di riaprire le case, come singoli individui e come comunità nazionale, ma intanto sono già ora tante le pietre da far rotolare, politiche, economiche, sociali, culturali. Ecco perché il sepolcro vuoto è un segno che parla a tutti, con la sua nuda, insopprimibile speranza. Non si cerca tra i morti chi è vivo.