L'emergenza sanitaria globale ha messo in crisi il modello spaziale sul quale abbiamo costruito la nostra idea di Terra. E impone una cartografia nuova

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C’è voluto un globo tanto minuscolo da essere invisibile per far piazza pulita di ogni luogo comune sull’attuale funzionamento del grande globo terrestre, azzerando e ribaltando ogni idea sulla globalizzazione, da tutti data in ritirata fino all’altro giorno. Cosa che adesso può credere soltanto chi si ostina a ritenerla una semplice questione di dazi, riducendola al traffico di merci. C’è voluto il virus per mettere in crisi tutto il buon senso con cui si credeva di aver sistemato una volta per sempre il nostro rapporto con il mondo. Spiegava Aristotele che il buon senso è l’insieme dei presupposti di cui ci serviamo per ragionare, ma a proposito dei quali non ragioniamo mai.

Così, per tentare di capire qualcosa della pandemia che oggi ci affligge, bisogna rivolgersi a quel che è dato per scontato, a quel che è da tanto tempo sotto i nostri occhi da non riuscire più a vederlo. «I confini resteranno aperti», minacciava nemmeno quattro anni fa Trump nell’illustrare agli elettori cosa sarebbe successo se il vincitore della corsa presidenziale non fosse stato lui. Trump ha vinto, i confini (statunitensi e non solo) si sono ancora più chiusi ma il Coronavirus va ovunque dilagando, segnando la fine non soltanto della cosiddetta postmodernità che comprende l’ultimo mezzo secolo, ma di un’epoca intera: l’epoca tolemaica iniziata quasi due millenni fa, e di cui l’intera modernità, con la sua coda, è soltanto l’ultimo segmento.

Non crediamo più, dopo Copernico e Keplero, che la Terra stia al centro dell’universo, come immaginava Tolomeo ai tempi dell’impero romano. Questo riguarda la cosmologia. Ma a proposito del nostro pianeta restiamo invece profondamente tolemaici, perché crediamo ancora che esso sia come per primo Tolomeo ha consapevolmente deciso: non un globo ma una gigantesca mappa cioè un unico spazio, un campo al cui interno ogni funzione dipende anzitutto dalla distanza lineare, matematicamente computabile, di un punto rispetto all’altro. Crediamo ancora questo a dispetto dell’avvento, cinquant’anni fa, della Rete, che ha instaurato la postmodernità subordinando lo spazio stesso ad una logica, quella dei flussi immateriali, del tutto opposta, perché irriducibile a qualsiasi tradizionale metrica.

Ed è proprio la crisi della mossa tolemaica all’origine del nostro attuale disorientamento, della nostra estrema difficoltà a far fronte al pericolo senza rimettere in discussione la base stessa di quella che con fatica, nel corso dei secoli, si è organizzata come convivenza civile. La reclusione a scopo preventivo nelle nostre abitazioni viene oggi chiamata dalle autorità “distanziamento sociale”, con un’espressione che riflette, in maniera esemplare, la natura spaziale della costruzione della società come fin qui l’abbiamo conosciuta e vissuta, e allo stesso tempo ne segnala la fine perché inverte la relazione tra i due termini: la socialità coincide adesso con la presa di distanza rispetto all’altro.

È il mondo alla rovescia, appunto inconcepibile, nel suo funzionamento, senza la rivoluzione telematica e informatica, che distrugge le condizioni al contorno come direbbero i fisici, i presupposti che hanno permesso per secoli l’egemonia del modello spaziale, garantendo e corroborandone le prestazioni. Quei presupposti che, codificati in forma di opposizione binaria, continuano a sorreggere ogni nostro argomentare, o quasi. La prima distinzione da dimenticare è, in proposito, quella tra materiale ed immateriale, come la stessa natura del virus impone.

Non siamo mai stati moderni, osservava anni fa Bruno Latour a proposito del buco dell’ozono e dell’impossibilità di decidere se fosse naturale o artificiale, secondo la logica dicotomica cui siamo abituati. Lo stesso vale per l’agente della pandemia che funesta oggi la Terra. Cui a farvi caso è impossibile applicare, nel tentativo di capire ed anticiparne le mosse, anche la distinzione tra soggetto ed oggetto e tra causa ed effetto, tutti riferimenti sprovvisti di significato al di fuori dell’ambito spaziale.

Ci si scopre così ad abitare una Terra la cui cartografia non corrisponde più all’atto del comprendere, perché le grandi, implicite premesse del mondo di ieri non valgono più. E il rovesciamento del mondo di ieri si trasforma nel suo crollo, che investe prima d’altro le due principali, artificiosissime condizioni spaziali (cioè cartografiche) alla base della sua costruzione: l’immobilità del soggetto, premessa per l’invenzione dello Stato moderno territoriale centralizzato, e l’estrema fiducia nella vista, eretta all’inizio del Quattrocento da Leon Battista Alberti a “principe dei sensi”. Nella maniera brusca ed inaspettata di ogni tragedia, e attraverso il processo del contagio, il microscopico virus a forma di sfera ristabilisce le due opposte verità: le persone si muovono e toccano, come accade quando ci aggiriamo intorno ad un globo o lo facciamo ruotare su se stesso.

È qualcosa che abbiamo sempre saputo ma programmaticamente escluso dalla costruzione della moderna visione del mondo. Benvenuti perciò nel mondo post-tolemaico, la cui esplorazione non può accontentarsi, come tutte le precedenti, della messa a punto di una mappa. Ma al contrario sarà chiamata a risalire, invertendo il percorso, da una molteplicità di mappe a un’unica nuda sfera, quella terrestre. Di tale itinerario siamo in grado di intravedere soltanto la base di partenza, cioè proprio le conseguenze dell’azione virale, che va comportando la trasformazione dell’umanità da ideale conflittuale a realtà materiale.

In altre parole: si parte da un regime di universalità concreta, per così dire, al cui interno la sopravvivenza del genere umano implica, all’orizzonte, la riunione sotto un unico concetto della specie e dell’organizzazione politica. Si tratta anzitutto del destino dell’Europa, nata insieme con la modernità, cioè con l’inizio dell’egemonia dello schema spaziale. Fu Pio II, dopo la caduta di Costantinopoli del 1453, a esortare per primo i principi cristiani a riconoscersi come europei. Tra il trauma di allora e quello di oggi non c’è paragone. Ma ora come allora resta l’urgenza di approntare nuovi modelli per la domesticazione e l’organizzazione del mondo, in nome adesso dell’umanità e non soltanto della cristianità. È l’unica maniera di dare davvero senso al lutto di questi giorni.