Oltre il lockdown: le voci del teatro che prova a ripartire
«Prenderemo su di noi il dolore del tempo», promette Emma Dante. E i Motus: «Anche il rapporto con il pubblico va ricreato, per portare gente nuova. Dobbiamo riscrivere le norme che stavano strozzando il sistema: se non cogliamo questo stop generale, abbiamo perso un’opportunità»
Provate a immaginare Romeo e Giulietta con la distanza sociale. E la mascherina? Può suonare stucchevole, nel dolore che il Covid ha causato. Però, la questione teatrale è ancora irrisolta. Il settore dello spettacolo dal vivo – opera, prosa, danza, circo – patisce la chiusura sia dal punto di vista concreto, economico, che da quello simbolico e morale. Perché il teatro è “assembramento culturale”, è piazza democratica: i teatri sono luoghi pubblici per eccellenza e per questo sono stati immediatamente chiusi nella pandemia. La situazione è grave, e rischia però di peggiorare nella Fase 2. Ci si interroga sul se, quanto, quando i teatri potranno riaprire. E riaprire a chi? Come? C’è chi parla di clima da dopoguerra, quando la Milano bombardata si ritrovava attorno alla Scala e al Piccolo; o dell’Effimero di Renato Nicolini, che riportò i romani in strada, a teatro, a cinema, negli anni di piombo. Servono urgenti risposte per ricominciare, ridare fiducia, perché lo stallo si fa sempre più pesante soprattutto per gli artisti. Il settore è sostenuto dal Fus, il Fondo Unico dello Spettacolo, che è già ridotto all’osso, e insufficienti sembrano le cifre “straordinarie” che il Ministero Beni e Attività culturali mette in campo: 130milioni di euro, per un comparto che raccoglie un mondo di professionalità, creatività, arte, bellezza.
[[ge:espresso:plus:articoli:1.347304:article:https://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2020/04/17/news/s-o-s-cultura-non-c-e-tempo-da-perdere-1.347304]]Però, per Massimiliano Civica, regista e consulente alla direzione artistica del Teatro Metastasio di Prato, questa emergenza è, paradossalmente, servita a qualcosa: «Il virus ci ha tolto una parte della nostra vita, non solo lavorativa ed economica, ma relazionale, di crescita umana, di pensiero. I valori della nostra esistenza. Dobbiamo partire da qui: riconoscersi minoranza, anche se cospicua, per riscoprire quanto il teatro sia fondamentale. Ripensare il valore del teatro in noi, che siamo “persuasi di teatro”, e poi condividere questa gioia con gli altri». Agli “Altri” guarda Emma Dante, punto di riferimento della nostra scena: «Il teatro è fatto dalla moltitudine, e immaginare sale forzatamente semivuote fa piangere il cuore. Gli artisti sono spugne, esseri disgraziati che prendono su di sé la tensione, la bruttura, la fatica, il dolore del proprio tempo, anche del post-emergenza. Una volta usciti da questa situazione tragica, però, forse la gente non avrà voglia di spettacoli come, ad esempio, i miei, impastati di dolore e di personaggi disagiati. Ci sarà la voglia legittima di intrattenimento e si dovrà trovare una poesia adatta a questo».
Insomma: da dove ripartire? Probabilmente dalla rete delle “residenze teatrali”, spazi che potrebbero essere una efficace “casa” per gli artisti. O dalle sacrosante richieste del Sindacato Attori Italiani, che rivendica diritti dei lavoratori, nella certezza che i teatri saranno tra le ultime realtà a riaprire. Secondo l’attrice Federica Fracassi, fondatrice e anima di “Teatro i” di Milano, «Dobbiamo superare questa transizione e restituire il teatro alla società. Si continua a ragionare in un sistema basato su dati “quantitativi”, che non può valere in futuro. Ed è evidente che chi opera nel settore non sia considerato né rispettato come lavoratore. Auspico un’inversione di tendenza, spero che il Ministro Franceschini voglia prendere posizione».
Più cauto Elio De Capitani, fondatore del Teatro dell’Elfo: «Due i discorsi da fare: come far sopravvivere le persone che a teatro lavorano; e come far vivere le istituzioni. Noi progettiamo, cerchiamo di lavorare, di incastrare contratti ma il pubblico è la nostra libertà. Per il 2020 aspettavamo 150mila spettatori. Da gennaio al 23 febbraio, data di chiusura, sono stati 35mila, ne mancano 120mila. Come, quando, pensare al futuro? Per adesso l’artista è un cittadino: e mi chiedo se il Paese è pronto alla Fase 2».
Lo chiediamo a Filippo Fonsatti, direttore del Teatro Nazionale di Torino e presidente di Federvivo, l’associazione Agis che rappresenta le realtà dello Spettacolo dal vivo. Spiega: «Sono cambiati i paradigmi: quella che si pensava fosse una situazione transitoria, avrà una prospettiva più ampia e prolungata. E ci pone nella condizione di accettare compromessi e limitazioni, come nella vita di tutti i giorni. Soprattutto per sostenere gli artisti: gli unici a pagare un prezzo veramente alto della chiusura. Non tutti sono convinti che si possa riaprire, sicuramente le difficoltà sono enormi: ma che si debba tentare il possibile è ormai idea diffusa. A sentire gli spettatori, sembra ci sia voglia di tornare alla normalità del teatro. Occorrerà che il pubblico torni a considerare i teatri come luoghi accoglienti, non rischiosi. La stagione 2020/21 sarà cruciale per lo spettacolo: Agis e Federvivo propongono che venga adottata una legge d’urgenza per l’assegnazione dei finanziamenti e chiediamo di dire la nostra sui criteri di riparto dei previsti 130 milioni per ora annunciati. Nei prossimi due anni dobbiamo ritrovare l’equilibrio tra domanda e offerta, e riflettere sul passato per progettare un nuovo disegno di legge».
Chi non si stanca di pensare al futuro è la compagnia Motus, di Enrico Casagrande e Daniela Niccolò. Chiamati a dirigere l’edizione del cinquantenario del Festival di Santarcangelo, prevista per luglio, i Motus si sono trovati a fare i conti con il lockdown. Dice Nicolò: «La pandemia non lascerà nulla intatto, la “normalità” non sarà quella di prima. Abbiamo giocato con il claim del festival: “Futuro fantastico”, per non spegnere l’immaginazione e usare il momento per rilanciare proposte. Possiamo ripensare le reti, le connessioni come risorse per immaginare modi diversi di creazione. Il rapporto con il tempo, con l’iperproduzione, le richieste ministeriali sono state gabbie che hanno tolto spazio al pensiero per mutarci in macchine produttive. Anche il rapporto con il pubblico va ricreato, per portare gente nuova a un teatro più inclusivo. Dobbiamo riscrivere le norme che stavano strozzando il sistema: se non cogliamo questo stop generale, abbiamo perso un’opportunità».