Questa crisi mette a rischio la coesione sociale. E verrà sfruttata per colpire poveri e immigrati. L'allarme di un esperto di storia delle malattie

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Frank Snowden è uno storico specializzato in epidemie, professore emerito di storia della medicina a Yale ha scritto un libro dal titolo “Epidemics and Society: From the Black Death to the Present”, sulle pandemie nel corso dei secoli e il loro impatto sulle strutture politiche e culturali.

Nella prefazione al suo libro sostiene che le epidemie non siano eventi casuali ma che “ogni società produce le proprie vulnerabilità specifiche. Studiarli è capire la struttura di quella società, il suo tenore di vita e le sue priorità politiche”. Quali vulnerabilità sta producendo il Coronavirus e cosa raccontano delle debolezze delle nostre società?
«La storia si ripete e il Covid-19 non fa eccezione a questa generalizzazione. Il Covid sta rivelando vulnerabilità di vario tipo. Una è la vastità della nostra popolazione, 8 miliardi di persone nel mondo. Poi l’enorme urbanizzazione, le città congestionate eppure collegate da rapidissimi mezzi di trasporto. È molto facile per una malattia esplodere la sera in Cina e raggiungere, la mattina dopo, Parigi o Città del Messico. Il coronavirus è in grado di inserirsi in una società congestionata e collegata da grandi reti di commercio e riesce ad affliggere specifiche categorie di persone, gli anziani ne sono un esempio. È una tragica ironia che con il suo buon servizio sanitario l’Italia abbia tra le più alte longevità nel mondo e di conseguenza una coorte molto ampia di persone anziane, dunque più vulnerabile al virus».

Foto di Liana Miuccio
Prontezza, preparazione sono due delle parole più ripetute in questa crisi. Il rischio di non essere pronti è fomentare disparità e restare, di nuovo, impreparati in futuro.
«Il pericolo epidemico era noto dal 1997 con l’influenza aviaria e poi ancora con la Sars, e l’Ebola, e l’Oms aveva messo in guardia sul futuro delle influenze pandemiche. Ma diverse nazioni hanno in gran parte smantellato il loro apparato di preparazione e tagliato i finanziamenti per la salute pubblica. Nel biennio 2018/19 l’Oms ha realizzato uno studio sullo stato di preparazione del mondo per affrontare le grandi sfide delle pandemie e concluse - il titolo era molto toccante - che vivevamo in un “Un mondo a rischio a cui non siamo preparati”. Ritengo dunque che il virus evidenzi vulnerabilità delle aree densamente popolate che presentano ineguaglianze interne e che pervicacemente non si sono preparate ad affrontare emergenze di questo tipo nonostante le sollecitazioni».

Il percorso per gestire un’epidemia è sanitario ma anche culturale.
«C’è un ritardo nelle reazioni culturali alle malattie epidemiche e, lo vediamo, anche di reazioni politiche. Il Coronavirus mette a dura prova le relazioni politiche dell’Unione Europea e le relazioni dei paesi al suo interno e stiamo assistendo una difficoltà nel coordinare strategie unificate verso questa malattia. Ci sono gruppi in tutta Europa e certamente negli Stati Uniti che sfruttano il virus per accelerare un sentimento anticomunitario, sostenendo che sia il risultato della globalizzazione e dell’immigrazione. Negli Stati Uniti, il Presidente afferma che si tratti di un virus cinese, rifiutando di usare la terminologia scientifica, alimentando ondate di xenofobia e nazionalismo».

Come l’influenza spagnola che ha ucciso 50 milioni di persone e però nulla aveva a che fare con la Spagna.
«Infatti, l’influenza spagnola era una definizione impropria, il nome è determinato dal fatto che dato che la Spagna non era coinvolta nel primo conflitto mondiale, la sua stampa non era soggetta a censura bellica e la sua esistenza fu riportata solo dagli organi di informazione di quel paese. Mi lasci dire che di quella epidemia è interessante notare che nonostante l’enorme tasso di mortalità il suo impatto non fu pari alla Peste Nera, questo dà l’idea di come nella storia delle epidemie il numero delle vittime non sia necessariaente correlato alle conseguenze sociali, politiche e culturali. La Peste Nera nel 1300 ha avuto un impatto devastante sulla società, dall’arte alla religione ai processi economici, ha promosso quello che è poi diventato lo stato moderno perché le comunità necessitavano di organizzarsi per prevenire la malattia e dunque avevano bisogno di un’autorità centrale».

In una recente intervista al New Yorker lei ha affermato di essere “terrorizzato“ dalla risposta cinese allo scoppio del coronavirus, l’ha descritta come una soluzione “maldestra” aggiungendo che - se minacciate da un blocco - le persone non collaborano con le autorità, dunque le autorità non hanno le informazioni di cui hanno bisogno, le persone provano a muoversi e questo aumenta il contagio. Come pensa che questa esperienza cambierà il nostro atteggiamento verso l’autorità e il controllo?
«Non esiste una relazione univoca tra una malattia epidemica e il tipo di strutture politiche o movimenti che sono rafforzati o indeboliti da essa. Ogni epidemia è sé stante. A volte sono sinonimo di repressione altre volte promuovono cambiamenti e rivoluzioni sociali. Si pensi alla fine della schiavitù ad Haiti e alla sconfitta dell’esercito napoleonico, la Grande Armata distrutta dalla febbre gialla a causa del differenziale nella mortalità di persone di origine africana che erano immuni, e gli europei, che arrivarono per schiacciare la rivolta e non avevano immunità. Le forze napoleoniche furono totalmente devastate e il comandante in capo scrisse di non poter continuare a combattere perché l’80% delle sue truppe era morto e il restante 20% convalescente e inabile alla guerra. I francesi si arresero e questo significò una rivoluzione ad Haiti, fu un colpo alla schiavitù. Un esempio di epidemia che promuove il cambiamento sociale. D’altra parte, può anche creare pressioni verso una politica di destra. La crisi non è mai solo medica. È psicologica, economica, politica. La profondità di questa crisi mette a dura prova le relazioni sociali e politiche e la società in modo molto grave. In molti paesi si discute già se affrontare il virus nelle forme del controllo e dello stato autoritario perché le democrazie non sono ritenute in grado di prendere le misure necessarie».

Pensa che questa pandemia possa livellare le disparità in termini di accesso alle cure mediche o che il rischio sia di alimentare le disparità anche su questo piano?
«Spero che la ricerca di un untore non allontani il fuoco della riflessione, quella sull’attività scientifica. Affrontare pseudo-problemi, affibiare colpe all’immigrazione, i focolai, genera mitologie che paralizzano la salute pubblica invece di promuoverla. Spero dunque che le persone capiscano che la scienza deve andare avanti e abbandonino fantasie paranoiche che sono pericolose non solo politicamente, ma anche dal punto di vista medico».

L’Italia fu uno dei primi luoghi a essere colpiti dalla Peste Nera. I marinai che arrivavano nel porto di Venezia separati dalla società per 40 giorni, in quella che possiamo dire sia stata la prima forma di moderna quarantena. Ora lei osserva l’Italia dall’Italia, il blocco è una buona soluzione, l’unica possibile. Oppure serve altro?
«Credo che dobbiamo guardare alla Corea del Sud, un paese che è riuscito a contenere la malattia basandosi sulla preparazione e la capacità di praticare test di massa. A questo si accompagna l’isolamento delle persone che risultano positive, la tracciabilità dei loro contatti stretti e il loro autoisolamento. È una componente importante di una risposta collettiva ed è una risposta in qualche modo promossa anche dall’Oms. Ma il blocco è solo parzialmente efficace. Si guadagna tempo ma la malattia rischia di rimbalzare di nuovo se la sanità pubblica non si dota di test che consentano di tracciare l’epidemiologia della malattia e conoscere quali settori della popolazione siano interessati. In più sono diversi tipi di blocco. La normativa italiana ha disposto un blocco severo. Nella provincia di Hubei, in particolare a Wuhan, in Cina, il blocco è stato rafforzato con la censura dei medici che dicevano la verità sulla malattia. Dunque non direi che un blocco è una misura inutile, ma parziale. Senza test di massa non si va avanti e serve una cooperazione transnazionale per creare risorse e distribuirle dove sono più necessarie».

C’è chi ritiene che il virus può livellare le differenze tra poveri e ricchi. Lei sostiene di essere d’accordo con l’Oms quando afferma che “la salute delle persone più vulnerabili è un fattore determinante per la salute di tutti noi” ma di non essere ottimista sul fatto che la lezione venga imparata. Al contrario, spiega che le pandemie possono accrescere il pregiudizio contro i poveri. Come a Parigi, dopo la rivoluzione del 1848 o sempre a Parigi nel 1871, al tempo della Comune di Parigi, quando le persone furono massacrate perché le classi lavoratrici erano considerate pericolose non solo politicamente, ma anche dal punto di vista medico. Pensa che anche adesso il virus alimenterà i pregiudizi contro i poveri?
«Credo che questo virus abbia il potenziale per farlo e in parte lo stia facendo. Negli Stati Uniti c’è la corsa a incolpare qualcuno. Gli obiettivi sembrano essere diventati gli stranieri, principalmente gli asiatici e questo ha prodotto un’impennata di violenza: persone di origine asiatica aggredite in strada o in metropolitana. A questo si accompagna una tensione generazionale, i giovani che hanno difficoltà economiche e probabilmente hanno votato Donald Trump, e sentono il miglioramento della loro vita ostacolato dalla tutela delle persone anziane. C’è un’espressione orribile sui social media: #boomerremover. I Boomer sono le persone anziane, i prodotti del Baby Boom (le generazioni del dopoguerra) e l’idea è che il Coronavirus ne spazzerà via almeno un po’. Non sto ovviamente dicendo che questa sia una caratteristica dominante, ma è una delle patologie che sta emergendo, è molto deprimente».

Nella risposta dell’Italia la tutela della vita umana, ogni vita umana, non è stata messa in discussione.
«Ciò che mi ha colpito in Italia è il senso di conformità alle normative sulla salute pubblica. Le persone sono un insieme e mi sembra che i cittadini siano resistenti nel far fronte a questa emergenza da cui si uscirà con estrema difficoltà. Credo che gli Stati Uniti abbiano da imparare dal tentativo dell’Italia di parlare con una voce sola. La comunicazione negli Stati Uniti è molto frammentata. Ogni comune, ogni consiglio scolastico, ogni stato - e sono 50 - ha politiche diverse questo confonde le persone e le rende diffidenti nei confronti delle autorità sanitarie. Il modo in cui questa crisi viene gestita dalle autorità ha un grande effetto anche sulla risposta della comunità».

Gli stati europei hanno chiuso i confini, tutti gli stati colpiti dal Covid si stanno barricando. Pochi sembrano interessati al destino dei paesi colpiti ma più svantaggiati. Crede che questo virus rischi di incrementare la diffidenza verso l’altro e un aumento del protezionismo da cui difficilmente si tornerà indietro?
«È una grande preoccupazione, non solo mia. Quando Bruce Aylward, consulente del direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità e a capo della squadra della missione congiunta Oms-Cina su Covid-19, è tornato dalla Cina gli è stato chiesto cosa avremmo dovuto fare per essere preparati e ha detto: “Dobbiamo trasformare la nostra mentalità”. Credo intendesse i nostri impegni morali e la nostra visione sociale. Stiamo tutti vivendo la medesima cosa, la crisi di un luogo è la crisi di tutti e per combattere questa malattia è necessaria cooperazione internazionale perché i microbi non rispettano la classe sociale, la nazionalità e la razza, è dunque importante capire che non è possibile alzare barriere per contenerlo. Spero vivamente che il muro di Trump non sarà visto dalle generazioni successive come la grande metafora della nostra era, perché è sia eticamente discutibile, sia praticamente inefficace nel far fronte a un’emergenza della salute pubblica, una malattia trasmessa da un virus polmonare che viaggia nell’aria. La chiamata ad innalzare i muri è inutile dal punto di vista della salute pubblica e peggiora la malattia perché crea uno stigma. E uno stigma è sempre lo stigma dell’Altro».