Cultura
29 aprile, 2020

Niccolò Ammaniti: «L'epidemia ci accomuna e ci rende simili»

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Cinque anni fa ha scritto Anna, un romanzo su un virus che uccide gli adulti e lascia in vita i bambini. «Oggi, però, l'attualità non mi interessa. Preferisco il passato, o immaginare il futuro» 

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Schivo, appartato, restio agli interventismi intellettuali, e anzi con una neghittosa indifferenza verso tutte le questioni che trascinano nello spazio social gli scrittori della sua generazione, Niccolò Ammaniti vive le restrizioni di questo tempo senza la fatica di chi ha dovuto frettolosamente accantonare troppe relazioni. Vero è che se potesse uscire andrebbe dritto a farsi un cocktail («uno di quei meravigliosi cocktail che preparano negli alberghi più eleganti, hai presente, non so, l’Helvetia&Bristol? »), ma in fondo, ora che del lockdown si comincia a intravedere la fine, «a questa situazione stavo cominciando ad abituarmi», ammette. E se gli chiedi se questi giorni gli portino ispirazione, taglia corto: «Non mi interessa scriverne, che noia».

Paradossale il time-lag. Perché Ammaniti il presente l’ha già raccontato: cinque anni fa, con il romanzo “Anna”, pubblicato da Einaudi (Stile libero) e giunto alla quarta edizione in tascabile con 300 mila copie vendute. Rileggerlo oggi, riscoprirlo ambientato nel 2020, in un mondo dove tutti gli adulti sono morti, falcidiati da una terribile epidemia che risparmia solo i bambini, fa una certa impressione. A partire dal virus-killer. La chiama “la Rossa” la pestilenza: non nera, come quella di Albert Camus, più simile a quella scarlatta del romanzo di Jack London. Un virus venuto da lontano che porta la febbre e toglie il fiato fino a non fare respirare più.
Non c’è vaccino per fronteggiare questa sciagura. E il mondo si trasforma in un desolato cimitero di edifici saccheggiati e arsi, villaggi spettrali e scheletri a ogni angolo, dove si muovono bambini sporchi, inselvatichiti, randagi e affamati come i loro cani, eppure vivi. E irriducibili.

Lo scrittore israeliano Etgar Keret, intervistato sul numero scorso dell’Espresso, inserendosi sulla scia di autori che hanno immaginato pandemie, ha parlato di “presentimento” degli scrittori. Lei come chiama questa singolare analogia tra il virus della sua fantasia e quello in circolazione? Pura casualità, chiaroveggenza, coincidenza?
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«Io non sono particolarmente portato a parlare di presentimenti. Penso che gli scrittori vivano dentro un terreno dove è possibile che certe cose si respirino, si sentano, si percepiscano, ma non in maniera diretta».

Torni all’idea del libro. Com’è nato?
«Io ricordo che l’idea della storia mi era venuta andando a Hong Kong, dove si era diffusa la Sars. Mi avevano misurato la temperatura sia prima di partire che al ritorno, e siccome non stavo tanto bene ero sbarcato preoccupatissimo, avevo paura di essere internato. Per fortuna non avevo la febbre, e quindi mi lasciarono andare. Quei giorni mi avevano certamente colpito, però si trattava di una cosa diversa, lontana, non gli davo molto peso. Penso di aver deciso di raccontare un’epidemia perché cercavo un modo per narrare il dopo: cioè non la storia di un virus, ma cosa accade in un tempo nel quale gli adulti non ci sono più. Mi interessava capire come funziona una società fatta di una parte sola della popolazione, i bambini. E per ottenere questo, l’unico modo plausibile era un’epidemia. Un’altra tragedia, tipo un’esplosione nucleare, non avrebbe colpito in modo differenziato. Ho studiato biologia, conosco i cambiamenti importanti del corpo nell’adolescenza, quando si diventa adulti. In coincidenza di quel momento, volevo che intervenisse qualcosa. E allora ho raccontato questa storia. Il resto è un caso».

Il morbo viene dal Belgio, la storia è ambientata in Sicilia... Perché questi luoghi?
«Il Belgio perché mi sembrava un posto lontano, freddo, un Nord che non ti viene in mente subito. La Sicilia è invece il centro della narrazione, ed è fondamentale perché è un continente in miniatura. Ha tutto, le montagne, il vulcano, il mare, città importanti in posti diversi, la neve e le spiagge. E mi sembrava importante far muovere lì i miei personaggi, perché se sei bambino non sai cosa succede neanche al di là di un dito di mare. È la stessa condizione di chi ha vissuto le pandemie in passato: non si conosceva il numero dei contagi né dove il virus si fosse propagato, e cose che avvenivano a pochi chilometri di distanza restavano sconosciute. Quando non sai nulla serve, più di tutto, il coraggio: avvverti la malattia, e decidi di spostarti, di fare un salto per vedere cosa c’è da un’altra parte».

È quello che fanno i bambini nel libro, mentre in tv spariscono i tg, per un po’ solo vecchi film, poi neanche quelli.
«Sì, ma credo che sia una missione dell’uomo superare i confini e andare a vedere cosa fanno gli altri. Ora noi non viviamo più quella condizione di buio perché siamo tutti costantemente informati sul numero di decessi, siamo travolti dall’informazione prima ancora di poter avere una reazione: l’informazione dilaga come il virus».

E questo è un male?
«No, ma fa emergere quanto la scienza sia parziale, fatta di mille voci. Invece, abbiamo sempre coltivato un’idea ottocentesca dello scienziato, che vive al di fuori del mondo, che conosce le regole naturali e fisiche, e può dare risposte certe. Oggi, confrontandosi su posizioni diverse, nei dibattiti in televisione o sui social, gli scienziati diventano un coro di persone che dicono cose completamente opposte, e perdono credibilità. Non solo non ci rassicurano, ma molti ci preoccupano, alcuni accendono speranze, altri meno... dipende da chi è l’interpellato. Perché sono uomini, e dunque c’è quello più positivo e quello che vede le cose in modo più negativo, ci sono poi gli esperti che entrano in conflitto tra di loro, e teorie diverse in campo: ho appena sentito un’immunologa dire, ad esempio, che i bambini non sono in grado di infettare».

I bambini, in “Anna” non si ammalano finché non diventano adulti. O meglio: il virus c’è “ma dorme e non fa niente, per risvegliarsi poi quando si diventa grandi”, spiega la mamma nello struggente quaderno di istruzioni per sopravvivere. Anche oggi i bambini si ammalano di meno, ma non è affatto escluso che possano propagare il contagio. L’infanzia è vitalità, istinto. L’adolescenza è l’età dei quesiti e delle possibilità. La maledizione, per lei, è l’età adulta?
«Sì, e in effetti è quasi una metafora della vita il virus in “Anna”. Astor, il fratellino che vive chiuso in casa, racconta la sua infanzia in quel perimetro rassicurante nel quale cresceva. Storicamente era così: i bambini vivevano nel chiuso delle case, con le donne. Giocavano ed esercitavano la fantasia. Quando il virus arriva, ti trasforma e non ti permette più di diventare adulto. Diventare adulto è vivere un lutto: devi scegliere tra la società e la fantasia, in fondo devi uccidere una parte di te per crescere. Lo specchio è un esempio: finché sei bambino è un gioco divertente, poi d’improvviso arriva l’adolescenza e diventa un’altra cosa, ti guardi per capire come sei fatto, se sei bello o brutto, se sei ricco o povero: improvvisamente in quello sguardo entra la relazione con la società. Da quel momento, devi rinunciare a chi eri prima. I bambini, nel romanzo, sopravvivono grazie alla fantasia. Sono convinto che un bambino stia meglio di un adulto chiuso in una casa, perché se gli sottrai tutti gli stimoli se li trovano da sé. Il problema di oggi è che i nostri figli sono iperstimolati e faticano a inventarsi delle cose da soli».

Intanto, in molti adulti avanza un atteggiamento di chiusura, che non è più solo adeguamento ai divieti o adattamento a una condizione nuova: ma desiderio di restare soli e protetti in casa.
«È vero, è una reazione psicologica con la quale faremo i conti a lungo. Molti, anche per difficoltà economiche oggettive, vogliono giustamente ricominciare a uscire al più presto. Ma per chi già aveva una vita di poche relazioni questa situazione è paradossalmente perfetta: si osserva e si critica dal divano, ci si sente al sicuro... Io per primo mi stavo cominciando ad abituare, già l’idea di dover uscire mi fa fatica...».

Ma ha lasciato in sospeso la serie tratta da “Anna”, che stava girando in Sicilia e che uscirà nel 2021 per Sky.
«Voglio finire di girarla al più presto, spero che le riprese possano riprendere in tempi brevi, anche se non esiste un posto più contaminante di un set cinematografico: si sta sempre tutti attaccati l’uno all’altro. Il grosso del lavoro è fatto, avevamo già girato sei mesi, e ne mancavano un paio. Ora lavoro da remoto, sto montando quello che ho fatto, ma funziona fino a un certo punto. Nel montaggio il processo di creazione è fortissimo, più che con un editor per un libro, perché nel montaggio cambi ciò che stai dicendo, che magari non sei riuscito a dire, trovi idee nuove...».

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Ha scritto la sceneggiatura di diversi film. Ha già firmato un’altra serie, “Il Miracolo”. Ha scoperto che le piace di più fare cinema? O il lavoro di squadra rispetto a quello, solitario, del narratore?
«Qualche anno fa, prima di cominciare a lavorare alle serie, ero arrivato al punto di non sopportarmi più. Tendevo alla depressione, giravo intorno alla percezione di qualcosa che mi mancava. In passato avevo l’idea che le relazioni e gli affetti potessero disturbare la mia capacità di scrivere, che è un po’ assurdo, ma funzionava. Ho vissuto in campagna per quattro anni, da solo con mia moglie, con i miei cani, con le mie sicurezze, vedendo le persone molto poco. Poi ho capito, ed è coinciso con i miei cinquant’anni, che a mancarmi erano proprio le relazioni con gli altri. Non potevo recuperare andando alle feste o all’improvviso parlando con tutti o girando per presentare libri. Ma avevo bisogno di condividere un progetto con qualcuno, e l’unico modo possibile era fare il cinema. Fino a quel momento ne avevo avuto paura, l’ho affrontato con l’ansia di non essere capace. Ma ho sentito che la mia vita stava cambiando completamente, mi sono sentito un’altra persona».

Le fiction sono una minaccia per la lettura o possono stimolarla, magari a partire da quei libri diventati serie?
«Non credo che facciano bene ai libri. Esiste un momento per la narrazione, attraverso i libri, i film, le serie. Tutti tendiamo a fare la cosa più semplice: metterci davanti alla tv. La richiesta di concentrazione di un libro è notevole, si fa fatica se non si è abituati».

E questo da scrittore non le fa sentire qualche responsabilità?
«No, non la sento. Penso che dipenda tutto dalla qualità delle cose. Se Netflix ci bombarda di continuo di serie fatte male, di corsa, la gente si stancherà e andrà a teatro o leggerà un libro. Anzi, prima di essere trattenuti a casa dal virus, sentivo che la serialità già cominciava a stancare. A me sta tornando il piacere di pensare e scrivere storie, ne sono contento: ero preoccupato che mi fosse finita la voglia di scrivere. Lo spazio per i libri c’è ancora, ma è più difficile conquistarselo».

Crede che la situazione che stiamo vivendo sia un’occasione per ripensare il mondo? O non avrà la forza di cambiare le cose? “L’apocalisse è quando muoiono tutti perche Dio ha detto stop. Vi ho dato un gioco e voi lo avete rotto. Vi ho dato un pianeta bellissimo e voi l’avete ridotto una merda”, leggo in “Anna”: “L’epidemia era la cosa più straordinaria che potesse accadere all’umanità”.
«Molti ritengono che di fronte ai flagelli, una guerra o un virus, l’umanità possa riscoprire i suoi aspetti migliori. Io ci credo relativamente. Penso che nel breve periodo questa situazione ci condizionerà, perché nessuno di noi aveva mai vissuto un’esperienza simile. Oggi siamo tutti toccati da qualcosa di inaspettato che mette in pericolo la nostra esistenza, e ci accomuna: prima ognuno aveva le proprie paure, ma non c’era un sentimento di paura condiviso con gli altri. È la prima volta in cui tu puoi condividere la paura della morte con tante persone insieme, cosa che in altre parti del mondo e in altre epoche la gente ha vissuto. Noi no, abbiamo avuto la fortuna di vivere un tempo in cui nessuno si è interrogato sulla paura di uscire di casa».
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E questo sta facendo nascere un senso di comunità, o almeno di collettività?
«Sì, ma basato sulla paura, che è esattamente ciò che l’Occidente voleva sconfiggere. Avevamo vinto la paura quotidiana, quella originaria, dell’uomo della caverna, incerto sul domani e costretto a sonni leggeri dal rischio dei pericoli. Avevamo relegato la paura a un problema personale: il virus ci fa sentire più simili e più vicini l’uno all’altro, a persone a cui magari non pensavamo più, alla politica. Però è una condizione limite. Credo che tutto ciò si perderà. In fondo siamo già passati per altre tragedie, e la vita è andata avanti, sugli stessi errori».

La tenacia della vita, la normalità che si tramanda: è questo il senso del quaderno che, nel libro, la madre lascia ai figli?
«La madre scrive perché sa di lasciare i bambini da soli in un mondo selvaggio. Credo che sia una delle paure più totali per un genitore: morire, e sapere che i tuoi figli, troppo piccoli, dovranno cavarsela da soli. Allora da una parte è un manuale di istruzioni, dall’altra dice: io non so cosa accadrà, quindi posso solo darvi dei consigli, il resto aggiungetelo voi. Quel quaderno diventa raccolta di esperienze e un’eredità per gli altri. E porta i bambini a ricordarsi del passato, a collegarsi al mondo di prima. È un’operazione che dovremmo sempre fare. Tendiamo a pensare solo a noi, a vedere il passato solo come insieme di date e situazioni nebulose. Invece, è molto importante ripensare a chi certe situazioni le ha vissute prima di noi, e in maniera più terribile».

Le è tornata voglia di scrivere in giorni di vita sospesa che, al contrario, per molti non si conciliano con l’immaginazione.
«Io invece ho grande bisogno di narrazione. Però tenendomi lontano dall’attualità. Preferisco scrivere una storia successa prima o nel futuro. Non ho alcuna voglia di raccontare di gente che se ne sta chiusa in casa».

E la sua fiction?
«“Anna” è un’altra cosa. È il racconto di un mondo libero, fatto di speranza».

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