Coronavirus, ora la Campania paga il conto di anni di tagli alla sanità

Malati rispediti a casa. Dottori senza protezione. Attese infinite per i tamponi. Negli ultimi sei anni la Regione ha perso 1.500 medici, 2.300 infermieri e 1.000 posti letto. E un focolaio sarebbe una catastrofe. «Ci chiamano eroi e poi, appena è possibile, ci decurtano lo stipendio» (Foto e video di André Liohn)

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«Nessuno merita di morire così». La voce di Arianna è ferma. Dalle sue parole e dal tono che usa si avverte distintamente quanto sia stanca, arrabbiata, affranta. Sua madre, Anna, è scomparsa il 26 marzo. Aveva la febbre alta da 12 giorni. Suo padre è morto il 2 aprile. Era stato ricoverato all’Ospedale Loreto Mare di Napoli: positivo al Covid-19. Ad Anna, nonostante le richieste e le insistenze, nessuno aveva fatto un tampone.

In Campania, secondo i dati ufficiali, ci sono più di 2mila contagiati. Numeri ridotti rispetto a quelli della Lombardia dove ogni giorno si contano più di mille nuovi casi. Il 15 marzo il governatore Vincenzo De Luca, che invoca il modello cinese per fermare la diffusione del virus, ha predisposto la chiusura di Ariano Irpino, comune in provincia di Avellino: primo paese del Sud a essere isolato. I contagiati erano 21, ma si temeva l’insorgere di un focolaio perché due dei pazienti risultati positivi avevano partecipato a una festa in maschera il 23 febbraio. L’isolamento doveva concludersi il 3 aprile, ma è stato prorogato fino al 14.
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«Se ti trovo a passeggiare sul lungomare, ti obbligo a stare in quarantena per 15 giorni». Dall’inizio dell’epidemia il governatore De Luca sulla sua pagina Facebook, invocando l’esercito e la militarizzazione, ha ordinato ai suoi cittadini di barricarsi in casa. Niente jogging, niente passeggiate con i propri figli, niente pizze a domicilio: «Qui non è permesso». Questo pugno di ferro nasce dal timore per un’emergenza sanitaria che, anche in numeri ridotti, il sistema sanitario regionale non sarebbe in grado di affrontare. Come nel resto d’Italia, in Campania si pensa che i pazienti affetti dal coronavirus siano molti di più di quelli rilevati dalla Protezione civile. In tanti si curano a casa, aspettando di avere indicazioni dal 118 e dai numeri verdi. Per Anna e suo marito è stato esattamente così.

«Hanno manifestato i primi sintomi insieme», racconta Arianna. Vive nello stesso appartamento dei suoi genitori, con lei ci sono anche il compagno e il loro bambino di 15 mesi. Uno accanto all’altro. Quando le condizioni del padre sono peggiorate, hanno chiamato il medico: «Ci ha prescritto una terapia antibiotica e cortisonica pensando a una bronchite». La situazione, però, non è migliorata. «Perciò dopo un po’ di giorni siamo andati al Cotugno», ricorda Arianna.
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Il Cotugno è il centro ospedaliero napoletano di riferimento per le malattie infettive. Qui sono stati ricoverati i primi casi accertati di Sars-Cov-2, il nuovo ceppo di coronavirus che sta mettendo in ginocchio il mondo intero. Inizialmente il Cotugno era l’unico polo della Campania dove venivano analizzati i tamponi effettuati sui possibili contagiati. «Ci sono volute settimane prima che riuscissimo ad attivare altri laboratori. Questo ha creato liste d’attesa infinite», spiega Valeria Ciarambino, consigliera regionale in Campania dei Cinque Stelle, membro della commissione sanità. Oggi sono nove i centri predisposti per l’indagine sui tamponi: alcuni laboratori non riescono ad analizzarne più di 100 al giorno.

Quando sono arrivati al Cotugno Anna e suo marito hanno aspettato nella tenda pre-triage dell’ospedale. Anna aveva la febbre alta: 39.8. «Hanno fatto il tampone solo a mio padre. A mia mamma no, perché non aveva la tosse. Siamo tornati a casa tutti insieme». Dopo due giorni è arrivato l’esito del test. Racconta Arianna: «Mio padre era positivo. Visto che le sue condizioni non erano migliorate, sono venuti a prenderlo». Su quell’ambulanza, trascorrerà quattro ore. Gli operatori non sapevano dove portarlo, tutte le strutture erano al completo. Alla fine viene ricoverato e intubato all’Ospedale Loreto Mare, oggi Covid Hospital.

«La scarsità di posti in terapia intensiva è un grande problema», precisa il dottor Antonio De Falco, segretario regionale del sindacato dei medici. In Campania sono 320 per quasi sei milioni di abitanti: ora più di 100 sono occupati da pazienti Covid. Il Lazio, che ha pressoché la stessa popolazione, prima dell’emergenza ne aveva a disposizione 571. La Regione sta cercando di correre ai ripari ampliando le disponibilità dei reparti di rianimazione. All’Ospedale del Mare e a Caserta si stanno costruendo due strutture che ospiteranno rispettivamente 72 e 24 posti letto. «Sa quanti pazienti tornano a casa perché non c’è nessuno che possa occuparsi di loro? Ricevo moltissime segnalazioni», aggiunge Ciarambino.

Stava per capitare anche al papà di Arianna, prima che venisse ricoverato. «Dopo 12 giorni ha smesso di lottare anche lui. È andato via», dice Arianna. Insieme al suo compagno e ai suoi parenti sta cercando di ritrovare la speranza, nonostante sia sopraffatta dalla rabbia: «Questa malattia colpisce tutti indistintamente, oramai lo sappiamo. La nostra storia dimostra però che a rischiare di più sono le persone comuni». Quelle che non hanno le conoscenze giuste, che non hanno una casa abbastanza grande per poter mantenere sempre una distanza adeguata da chi è contagiato; quelle che non sanno cosa fare se non affidarsi alla sanità pubblica.

Negli ultimi 10 anni la regione, prima guidata dal centrodestra con Stefano Caldoro e poi dalla sinistra con De Luca, ha dovuto affrontare una severa spending review per ripagare un debito di nove miliardi: le politiche messe in atto per uscire dal commissariamento, che si è concluso a dicembre 2019, hanno portato alla chiusura di alcuni ospedali e alla riduzione del personale sanitario. Nel 2011, secondo i dati del ministero della Salute, i medici erano più di 10mila e gli infermieri 20mila, nel 2017 sono diventati rispettivamente 8.869 e 18.145: in sei anni la Campania ha perso quasi 1500 medici e 2300 infermieri, una diminuzione costante. Sono spariti anche più di 1000 posti letto.

«Abbiamo ereditato dal centrodestra una sanità allo sfascio. Piano piano la stiamo rimettendo in piedi», afferma Amabile Tommaso, consigliere del Pd in Campania, membro della commissione sanità. Questi tagli hanno fatto in modo che i bilanci migliorassero. Ma hanno pesato sulle condizioni del sistema sanitario che, nonostante i passi avanti, risulta sempre in affanno: nel 2018 la Campania era ancora la penultima regione d’Italia per i livelli essenziali di assistenza (Lea). Proprio per questo motivo, per Arianna «qui, a Napoli, è sempre emergenza».
Mentre suo padre era in ospedale, sua mamma è rimasta a casa. Stava sempre peggio. La febbre scendeva con difficoltà. Arianna continuava a comprare scatole di tachipirina: una dopo l’altra. «Era l’unico rimedio che avevo. Mi chiedo ancora per quale motivo non sia venuto nessuno, nonostante le continue segnalazioni al 118. Ci dicevano di chiamare solo se avesse iniziato a respirare con fatica». Prima di Anna probabilmente erano in lista altre persone che già da giorni aspettavano di veder comparire alla loro porta gli operatori del 118. Persone che si sono aggravate, perché non sono state assistite in tempo, quando erano a casa. Nonostante la situazione stia migliorando, in Campania la percentuale dei pazienti in terapia intensiva è più alta della media nazionale.

«Chi richiede il tampone aspetta una settimana prima di poterlo fare», sottolinea la Ciarambino. La lentezza all’inizio dipendeva da un sistema farraginoso: «Il medico di base doveva segnalare il paziente alla Asl che, dopo un ulteriore triage telefonico, inviava il nominativo al 118, incaricato di svolgere i test a domicilio. In questo modo si sovraccaricavano le ambulanze», continua la consigliera grillina. Il 118 a Napoli può contare su 19 autoambulanze, 13 con medico a bordo. I tempi di attesa, dalla chiamata all’arrivo, superano in media i 20 minuti.

Dopo alcune critiche, la giunta regionale ha deciso di cambiare strategia creando delle unità di giovani medici volontari che si occupano dei tamponi: a Napoli sono state predisposte 5 unità mobili per un territorio che ha quasi un milione di abitanti. «Per ogni test tra vestizione e sanificazione ci vogliono più o meno 3 ore», spiega il dottor De Falco. Il governatore, diventato oramai un star del web, ha promesso via Facebook di eseguire 2mila tamponi al giorno.

L’ex sindaco di Salerno, in vista delle elezioni, vuole dimostrare ai suoi avversari e al suo partito di avere le carte in regola per poter guidare la regione altri cinque anni (anche senza l’appoggio dei Cinque Stelle). «All’inizio abbiamo avuto delle difficoltà, ma ora stiamo reagendo. I test rapidi per il personale a rischio sono il nostro obiettivo», promette il consigliere Pd Nicola Marrazzo. Bisognerà vedere se le forze messe in campo saranno state sufficienti. Per adesso la Campania, in rapporto alla popolazione e al numero di casi, rimane la regione che ha svolto meno tamponi.

«Quante persone hanno dovuto soffrire prima che il sistema venisse velocizzato?», si chiede Arianna. Quando Anna è arrivata all’ospedale, trasportata d’urgenza dall’ambulanza perché non riusciva più a respirare, era troppo tardi. Il tampone lo hanno fatto dopo, per certificare la causa della morte. Anna è diventata un numero, una delle vittime elencate alle 18 in punto dal capo della Protezione civile, Angelo Borrelli. In tanti, come lei, si sono sentiti abbandonati: inermi di fronte a un sistema in cui anche medici e operatori delle Asl non sanno come muoversi.

«Ci chiamano eroi e poi, appena è possibile, ci decurtano lo stipendio». Giovanni preferisce mantenere l’anonimato. Lavora come medico d’urgenza al 118: 12 ore al giorno, ogni giorno. «Le cooperative che gestiscono i servizi d’urgenza ci inquadrano come volontari per pagarci meno. Agli operatori sociosanitari e agli infermieri vengono dati 5 o 6 euro l’ora». È una schiavitù diffusa in tutta Italia che in Campania pesa su una sanità già compromessa. «Lavoriamo senza dispositivi di sicurezza. Ogni giorno mettiamo a repentaglio la nostra vita. Un mio collega non ce l’ha fatta». Un’altra vittima. Un altro nome da aggiungere alla lista.

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