Gli stagionali dall’Africa non arrivano più. Quelli rimasti in Italia sono costretti nei ghetti. Tonnellate di frutta e ortaggi potrebbero marcire. Ma il governo ha paura di fare una sanatoria. E chiede aiuto all’Est Europa

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Frutta, verdura e ortaggi grazie alle loro braccia sono sempre arrivati nei mercati e sugli scaffali, ma loro per decenni sono stati invisibili. Nell’Italia spaventata dall’epidemia di Covid, per decreto sono diventati sulla carta i “lavoratori essenziali” di quei settori che non si possono fermare. Ma senza contratti né diritti, l’esercito dei braccianti migranti è rimasto bloccato nei ghetti e nelle tendopoli e il motore della filiera agroalimentare si è fermato.

È bastato imporre uno straccio di lavoro regolare per giustificare gli spostamenti e un’intera filiera è andata in crisi. Prodotti bandiera del made in Italy marciscono sugli alberi, nei campi, nelle serre. Piccoli e grandi produttori gridano al disastro, Il governo studia soluzioni. Chi con la sua fatica ha sempre trainato il settore, oggi rischia la fame.

«Il nostro sudore è uno degli ingredienti della vostra dieta giornaliera. Siamo degli esseri umani, con uno stomaco quasi sempre vuoto e non solo braccia da sfruttare», recita il testo che accompagna la raccolta fondi promossa da alcuni dei braccianti di Foggia sulla piattaforma GoFundMe, rilanciata a livello nazionale da Aboubakar Soumahoro. Il ricavato verrà diviso fra i vari coordinamenti territoriali e usato per comprare cibo. Perché la fame non conosce confini. E in ghetti, tendopoli e casolari oggi si convive con la paura di non potersi difendere dalla pandemia.

Mani rotte dal lavoro nei campi, Mbaye ha occhi più anziani dei suoi 26 anni. Il lockdown lo ha sorpreso in Calabria, alla tendopoli di San Ferdinando, da anni istituzionale “soluzione temporanea” all’ormai stabile presenza di migliaia di braccianti stranieri che arrivano per la stagione degli agrumi. Oggi, una potenziale bomba sanitaria. Un solo caso di Covid trasformerebbe quella massa di tende blu in un focolaio. Associazioni come Medici per i Diritti Umani, Mediterranean Hope, SOS Rosarno, Sanità di Frontiera, Csc Nuvola Rossa, Co.S.Mi. da settimane dicono che l’unica soluzione è svuotare tendopoli e ghetti. I loro appelli sono rimasti inascoltati, piani e programmi presentati a Regione e prefettura per risolvere in fretta la situazione, ignorati.

Chi vive in un recinto con altre 500 persone è cosciente del rischio. E sa che a poco servono quel pugno di mascherine e l’igienizzante che il comune di San Ferdinando ha distribuito. Costretti a vivere anche in otto sotto stracci di plastica blu e a dividere tutti non più di una decina di bagni, i braccianti migranti della Piana sono bloccati in un assembramento di fatto. Pochissimi hanno contratti fissi e in regola, pochissimi riescono a lavorare. Chi ha sempre contato solo su impieghi a giornata, adesso deve stare fermo. «Ma se non lavoriamo, non mangiamo. Qui nella Piana di Gioia Tauro la stagione delle arance sta finendo, ma non posso spostarmi per cercare lavoro», dice Mbaye.

Da quando ha lasciato il suo Gambia, ha sempre o quasi fatto il bracciante. Ha imparato a muoversi in Italia secondo il ciclo dei raccolti, seguendo il passaparola dei connazionali, la rete di chi diventa famiglia a schiena curva nei campi. Aveva una protezione umanitaria, cancellata dal decreto Salvini, ma convertirla in permesso di lavoro non è stato semplice.

È uno dei fortunati, qualche contratto lo ha strappato, sebbene le ore lavorate su carta siano assai meno di quelle effettive. Forse basteranno, gli hanno detto al sindacato. Il problema potrebbe essere la casa. La legge prevede che il lavoratore presenti anche un regolare contratto di affitto, nonostante la maggior parte dei braccianti si sposti per tutta l’Italia secondo il ciclo dei raccolti. La pratica era in itinere quando tutto è stato congelato fino a giugno, in attesa o nella speranza che l’epidemia passi. «In Basilicata mi aspettano per pomodori e zucchine», freme Mbaye , «lì un lavoro lo avrei». Ma senza un contratto è impossibile spostarsi. Anche i vicini Comuni del vibonese che vivono delle coltivazioni di cipolle e fragole sono una meta irraggiungibile.

Ci lavorava spesso Mamahdou, arrivato in Italia ragazzino e cresciuto sperimentando tutti i gironi infernali della burocrazia dell’accoglienza. Mente sveglia, un talento per le lingue, allo Sprar che lo ha accolto hanno fatto di tutto per convincerlo a studiare da mediatore. Ma a casa, in Mali, avevano bisogno di soldi e il lavoro nei campi era il modo più rapido per aiutarli. La sua vita è diventata un periplo. Dalla Calabria a Foggia, fino in Spagna, dove un contratto da magazziniere gli ha assicurato per anni una vita decente. Poi è arrivato il decreto sicurezza, la sua protezione umanitaria è divenuta carta straccia ed è stato costretto a buttare tutto all’aria per tornare in Italia e convertire il permesso.

È finito a lavorare in nero, a ore, a giornata o a cassetta e a vivere nel ghetto di Contrada Russo, non luogo nascosto nelle campagne fra Rosarno e Taurianova, dove la corrente è quella fornita da un vecchio generatore e per lavarsi tocca andare al pozzo distante quasi un chilometro. Anche Mamahdou aspetta. Che arrivi un contratto vero o che la commissione territoriale consideri la regione dilaniata dai conflitti da cui proviene, meritevole di protezione internazionale. Ma prima la pandemia deve passare e gli uffici devono riaprire. Nel frattempo a scandire il tempo è la fame, i piccoli lavoretti informali rimediati schivando i controlli, l’arrivo al ghetto delle associazioni che forniscono assistenza legale, medica, sindacale e oggi portano cibo, mascherine, igienizzante, informazioni.

«In questi anni sono stati creati dei veri e propri percorsi a ostacoli nella regolarizzazione per costringere i braccianti ad accettare qualsiasi condizione di lavoro», spiega Ruggero Marra dello sportello Soumaila Sacko. «Più è complicato avere documenti in regola, più i lavoratori saranno disponibili a piegarsi ad ogni sorta di ricatto». E nella Piana e non solo, di Mbaye e Mamahdou ce ne sono dieci, cento, mille, un esercito costretto a rimanere immobile.

Solo pochi di loro possono contare sui sussidi congegnati dal governo per i lavoratori agricoli. I sindacalisti di Cgil e Usb da giorni battono ghetti e campi, fanno i conti con ore e giornate lavorate, compilano moduli, inoltrano richieste. Ma sanno che quegli aiuti sono un’arma monca, che i potenziali beneficiari sono pochi e i cosiddetti “insediamenti informali” rimangono una bomba sanitaria a orologeria.

«La cosa più semplice e immediata sarebbe una sanatoria. E converrebbe a tutti», spiega Peppe Marra, dirigente sindacale dell’Usb calabrese, «perché permetterebbe di svuotare i ghetti dunque risolvere un problema sanitario che in tempi di pandemia è di tutti, non solo dei migranti. In più, darebbe a questi braccianti la possibilità di lavorare e vivere in condizioni dignitose, senza obbligarli ad essere irregolari o a vivere in situazioni di marginalità». Al momento, sono stati solo congelati i termini per i permessi fino al 15 giugno. «Ma è l’ennesima soluzione d’emergenza ad un problema strutturale», fa notare Marra », e la crisi della filiera agricola dimostra quanto il lavoro dei braccianti migranti sia essenziale per il settore». Che adesso è in crisi.

La prima a lanciare l’allarme è stata Coldiretti: «Con il blocco delle frontiere, nei campi mancano 370 mila lavoratori». Anche il governo Conte da settimane studia come affrontare il problema, forse con lena maggiore da quando a Palermo c’è stato il primo assalto ai supermercati. È meccanismo economico banale. A scarsità di prodotti equivale un rincaro dei prezzi, che eroderebbe rapidamente qualsiasi sussidio economico. «Nessun governo oggi può permettersi di far pagare una lattuga dieci euro», commenta un esponente politico di lungo corso.

Al ministero dell’Agricoltura il dossier è aperto. La sua titolare Teresa Bellanova sta tentando un accordo la Romania per far arrivare braccianti dall’Est. Anche la Germania sta studiando una soluzione simile con tanto di voli charter dedicati, c’è chi in Europa pensa ad un “treno verde” che permetta ai braccianti di muoversi. Solo comunitari per non avere grane di permessi, sebbene in Italia, dicono i dati ufficiali forniti dalle associazioni di categoria, la maggior parte degli stagionali regolari arrivi da Marocco (35.013), India (34.043), Albania (32.264), Senegal (14.165), Tunisia (13.106), Bulgaria (11.261), Macedonia (10.428) e Pakistan (10.272).

In ogni caso l’idea di far venire decine di migliaia di persone dall’Est Europa è complicata da gestire. Non è chiaro ad esempio chi si farebbe carico del loro sostentamento nei 15 giorni di quarantena obbligatoria all’ingresso in Italia. Fra i diversi paesi dell’Europa “ricca” che hanno bisogno di braccia poi, le disparità salariali sono notevoli e l’Italia è una meta poco competitiva, con le sue retribuzioni più basse. Senza dire che nel nostro Paese le strutture abitative per mantenere il distanziamento sociale quando il lavoro finisce sono per lo più inesistenti. Fattore che relega al rango di propaganda la proposta di mandare nei campi i percettori di reddito di cittadinanza o sussidi di disoccupazione.
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Ma in realtà, braccianti in Italia già ci sono. La ministra Bellanova lo sa, nella Piana di Gioia Tauro ci è stata mesi fa, ma solo ora sembra ricordare chi è obbligato al lavoro nero e confinato in quei ghetti «dove sta montando la rabbia e la disperazione. Il rischio», afferma, «è che tra poco ne escano e non certo con un sorriso. Bisogna mettere anche loro in condizioni di lavorare in modo regolare». Una timida apertura a una regolarizzazione? C’è chi ci crede, chi no. Ma a Roma sembrano aver preso coscienza anche di un altro aspetto fondamentale della partita. «Se certi processi non li governa lo Stato», dice Bellanova , «ci pensa la mafia». Che da tempo ha investito sull’agroalimentare e in tempi di crisi si troverebbe in mano l’ennesima arma.