La gioia della lentezza. Il gusto della solitudine. I segreti nascosti nei gesti quotidiani. Sono i doni inattesi di questi tempi duri, sostiene la poetessa. Che invita a goderli. E a reimparare lo stupore davanti alla Natura

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La sua casa è nella parola, questo dice di sé Mariangela Gualtieri, poetessa, nata a Cesena e fondatrice con Cesare Ronconi del Teatro Valdoca. Mariangela Gualtieri è poesia scritta e recitazione, nelle sue parole la terra, la Natura, il farsi delle cose. Sembra scrivere per tramandare oralmente ogni parola, così i testi teatrali (“Parsifal”, “Caino”), così quelli poetici, l’ultimo per i tipi di Einaudi, “Quando non morivo”, pubblicato nel 2019. All’inizio delle misure di contenimento Mariangela Gualtieri ha scritto “Nove Marzo”, una poesia su questo nostro comune tempo vuoto, circondati dal virus che ci minaccia.

Vorrei cominciare dalla paura, Mariangela. Sento che questo virus che cammina tra noi, malgrado noi, ci chiede di dirci impauriti. Eppure siamo riluttanti ad ammettere fragilità. Con quali parole si racconta la paura?
«Non so per quale strana virata nella mia educazione piccolo borghese, ma ho sempre sentito il mio aver paura come segnale di una avventura che andava accolta e percorsa. La paura come punto che chiama e contiene un insegnamento, un piccolo tesoro che porta in sé anche la forza di attraversarla. Mi è sempre andata bene, fino ad ora, ma c’è in questo l’esposizione ad un rischio che poteva rivelarsi fatale, soprattutto nell’adolescenza, durante la quale infatti ho fatto esperienze che, pensando ad una figlia, adesso mi farebbero tremare.

«Chi come me fa teatro, misura esattamente ogni volta, prima di entrare in scena, la propria paura. Ogni volta identica e quasi insuperabile. Poi si entra in scena e tutto scompare. Che cosa succede in quei millimetri, in quel passo fra fuori scena e dentro? Io credo si accetti la propria solenne fragilità e piccolezza, credo si guardi a se stessi con pietà. Penso: ancora sei qui e ancora hai paura? E ho pietà di me, come se “Io fosse un altro” e in questo modo il sentimento si allarga al mondo, all’umano e la pietà si fa più grande».

Mentre dialogavamo, giorni fa, mi hanno commosso le tue parole sui bambini. I pensieri su cosa resterà in loro di questo silenzio e vuoto e isolamento. Saranno più bravi di noi a processarli? In “Ringraziare desidero” descrivi i bambini come divinità domestiche. Saremo riconoscenti e debitori per la purezza di sguardo che ci impongono, o pensi che vorremo dimenticare e tornare velocemente quelli che eravamo?
«I bambini sono per me grandi maestri di gioia, anche se vedo che attraversano solitudini e dolori immensi. Noi osiamo buttarli in spot pubblicitari – non riuscirò mai ad abituarmi a questa istigazione alla prostituzione infantile. Noi facciamo di loro le nostre depotenziate miniature e così mettiamo a tacere le loro presenze potenti, scardinanti. Sento in questo tempo la loro sofferenza e anche la loro gioia, il poter finalmente avere i genitori a casa, un tempo per loro più accurato, più dedicato, lì dove succede. Sono testimoni preziosi di quanto sta accadendo e in questo loro osservarci io ripongo una delle speranze per il futuro. Spero saranno più saggi e rispettosi di noi che in così breve tempo abbiamo rotto l’alleanza con gli altri esseri viventi, pensando solo a noi stessi e ai nostri profitti».

I versi finali di Nove Marzo, la poesia che hai scritto all’inizio di questo isolamento, su questo isolamento, recitano così: "A quella stretta / di un palmo col palmo di qualcuno / a quel semplice atto che ci è interdetto ora / noi torneremo con una comprensione dilatata. / Saremo qui, più attenti credo. / Più delicata la nostra mano starà dentro il fare della vita. / Adesso lo sappiamo quanto è triste / stare lontani un metro». Il corpo dell’altro che oggi ci è distante è comprensione, vocabolario del nostro essere nel mondo. Esplorare i corpi è parte dell’avventura di scrivere. Come cambia la scrittura in un corpo recluso?
«Penso a quanto in questi giorni di reclusione io sia aiutata dalle mie mani. Leggo molto, scrivo, studio, ma dopo un po’ mi debbo alzare e fare un piccolo bucato, o impastare farina e fare tagliatelle, o il pane, o svasare, trapiantare. E questo fare, con una calma che non sperimentavo da tempo, è quasi un canto d’amore del mio corpo, una quasi felicità, se non ci fosse il perenne ronzio della generale angoscia. Questo fare gioioso del corpo è certamente una preghiera silenziosa, cioè un modo di cadere per un momento nella grande armonia del cosmo, e semplicemente risuonare col resto. Tali momenti sono terra fecondissima per la scrittura, una scrittura che verrà quando vuole, magari anche anni dopo. Lì, in quella meraviglia del piccolo fare del corpo, c’è un segreto che forse le nostre nonne conoscevano bene, forse tutte le donne recluse per millenni trovavano in quello, a volte, il loro canto, la loro piccola libertà. Il pensiero della nostra relazione con i corpi degli altri, soprattutto per noi mediterranei, è ora uno dei pensieri più inquietanti. Dovremo imparare ad esprimere diversamente la nostra affettività, trovare gesti espressivi e intensi stando lontani, almeno per un po’ di tempo».

In Nove Marzo scrivi anche: «Ci dovevamo fermare / e non ci riuscivamo». Sento vicini questi versi, sento di aver vissuto vorticosamente lo spazio e il tempo negli ultimi anni, usando il mio corpo come strumento di conoscenza delle vite degli altri. E ora che sono ferma spero che quel vorticare diventi germoglio di racconti futuri. Pensi che saremo saggi abbastanza da elaborare la voce di questo vuoto?
«La natura adesso sta facendo quasi un suo sfacciato canto, con un cielo blu che io non vedevo da tempo, acque trasparenti, animali che entrano nelle città, o corrono liberi sulla riva del mare, aria di montagna nel centro delle metropoli. Pare ci dica che può benissimo fare a meno di noi, e anzi, stare anche meglio senza le nostre ingombranti presenze. Io sono sconvolta da questo ma forse il nostro antropocentrismo bastonato fa finta che questa rivoluzione non stia accadendo, la minimizza.

«Bisogna fare un giuramento. Impegnarsi con tutte le forze a non ripetere gli errori fatti. Ognuno dovrebbe promettere a se stesso, ai propri figli, alla terra tutta, al cielo, promettere un diverso comportamento. Da dove cominciare? Non è così difficile, secondo me, e non bisogna aspettare che siano i governanti a dircelo, anche perché non ce lo diranno mai. Si deve cominciare da ciò che ci tiene in vita: aria, acqua, cibo. Equilibrio fra noi e ciò che ci nutre. Non è il denaro che ci tiene in vita. Non è il successo. Non è il potere. È un patto fra noi e gli altri organismi viventi, il rispetto di un equilibrio comune.

«Alleviamo milioni di animali, dopo averli resi deformi per avere più petto o più cosce, con crudeltà e ferocia, senza rispetto e senza gratitudine. Li imbottiamo di antibiotici e poi ce li mangiamo, senza un grazie, senza pietà. Milioni di viventi che ci nutrono, quelli che la Ortese chiama “le piccole persone”, sono ingabbiati in una tale sofferenza che può solo generare una massa di infelicità mondiale, quasi una massa d’ombra che ci travolgerà. Che ci sta travolgendo. Ci sono precise cause economiche e antropologiche dietro la comparsa dei virus degli ultimi anni, e ognuno di noi dovrebbe fare tutto quello che può per migliorare la disarmonia. C’è un capitalismo in noi, c’è un liberismo in noi che va rettificato».

“Abbi fede in quel niente / che viene – quel niente che succede", scrivi in “Quando non morivo”. Le parole sono fragili eppure specchio, combattiamo con loro ma attraverso loro conosciamo il mondo e conosciamo noi stessi. Cosa ti sta consegnando il niente che viene, il niente che succede di questa primavera?
«Le parole sono il mio assillo e la mia gioia. Le aspetto ogni giorno, soffro quando mi mancano, resto incredula quando arrivano. Sono un’emigrante, lontano da loro. Sono la mia patria. Mi sembrano vere divinità. È facile dominarle o credere di farlo, ma il meglio in poesia, almeno per me, arriva quando mollo la presa, quando non prendo la parola ma lascio sia lei ad abitarmi, a spodestarmi. Questa primavera è una delle più intense della mia vita. Abito in una campagna selvatica e dunque la mia reclusione è piuttosto dolce. L’intensità viene dal sentire vicini tutti, essendone lontana, e per quanto ognuno dei fenomeni primaverili mi appaia, in questa lentezza e solitudine, come una rivelazione. Non può che nascerne una gratitudine quasi francescana».

In “Ringraziare desidero” scrivi: «Per i nostri morti / che fanno della morte un luogo abitato». Si parla poco di morte, di quando il corpo non ci sarà. Credo sia una delle vulnerabilità che questo virus sta mettendo in luce: l’occultamento della morte. Da cosa credi derivi?
«Credo non si possa vivere col costante pensiero della morte. Ma non si può vivere una vita piena senza abitare a volte quel pensiero. La morte è il futuro di ognuno di noi e a me piace pensarla come un’avventura della conoscenza. Mi sento serena, ma so che persone serene sono poi state terrorizzate al momento del passaggio, mentre persone spaventate lo hanno affrontato serenamente. È perché la morte è l’entità che meno conosciamo e in ogni caso ci sorprenderà, sarà la più sorprendente delle esperienze.

«Passare la notte accanto al corpo della mia mamma morta è stato come ricevere la sua ultima immensa lezione di pietà e di mistero, di trascendenza e di amore per quella “cara forma” che aveva smesso di parlare ma non di insegnarmi. La morte è la grande rimossa, presentissima nel violento immaginario ma appunto spettacolarizzata, resa distante e favolistica, poi sbrigativamente trafugata quando si è vicini ad un vero cadavere. Il virus riporta la morte nelle nostre vite e ci ammutolisce, ci sgomenta. Io ho cominciato a mettere ordine fra le mie cose, pensando che potrei andarmene e credo che molte persone della mia età abbiano pensato questo. C’è anche una strana pace in questo mettere ordine, un sottile sentimento di congedo che illumina potentemente tutte le cose».

La tua poesia è parola scritta e parola detta. Cucita nel silenzio. Quando leggi sembra di vedere intorno a te la natura che ti circonda, sedimentata in ogni sillaba. Come descriveresti il dialogo che la Natura ha con i tuoi versi?
«La parola natura mi dà inquietudine, come tutte le parole che non ho fatto lo sforzo di precisare e che forse non sono precisabili. Io sono natura. Io sono terra che cammina. Sono il punto in cui la terra sperimenta il pensiero, la parola, la consapevolezza della morte, l’arte, lo scrivere poesie, la pietà, il perdono. Siamo terra e terra ritorneremo. Siamo uno dei modi di essere della terra. Dire questo forse ferisce il nostro narcisismo ma io non posso dimenticare che miei antenati sono scimmie antropomorfe e che prima di diecimila anni fa non esistevano né l’agricoltura né le città. Siamo una specie neonata, neppure ancora adolescente e forse per questo abbiamo commesso errori quasi irreparabili. Dunque io guardo la natura come diversa espressione di me stessa e sento grande consonanza. Quasi a dire che quello che vedo sono sempre io, non l’ingombrante io ma un io che accetta e sottostà alle regole dell’universo. Perché tutto è estremamente obbediente. Tutto tranne noi».

In questi giorni mi sono tornate in mente queste parole che Paul Celan scrisse in una lettera a Hans Bender: “Solo mani vere scrivono poesie vere. Io non vedo alcuna differenza di principio tra una poesia e una stretta di mano. Viviamo sotto cieli cupi - e ci sono pochi esseri umani. Per questo anche le poesie sono poche”. Penso a quanto sia necessario oggi unire il rigore, la razionalità della scienza che non ci faccia scivolare nel burrone dei rancori e dei nazionalismi, ma quanto anche in parallelo, questa Natura, sconosciuta e indicibile forse ci chieda poesia per tentare di spiegarsi. Sarà la strada, il verso, per uscire dalla confusione lessicale che viviamo?
«Sarebbe bello. La scienza sta facendo un grande lavoro, ci sta ricollocando, sta ridefinendo il nostro minuscolo posto nell’universo. Ma la poesia è ora uno dei pochissimi ambiti in cui entriamo in contatto con noi stessi, e anche dove si crea un ponte fra noi e tutto il resto, fra noi e il sacro, fra noi e il mistero che la scienza indaga».

Tengo da tempo il tuo “Caino” tra i libri più cari. La centralità del tema della vittima, la polarizzazione tra vittima e carnefice che si assottiglia fino a scomparire. In Caino scrivi: "Accogliere la distesa e quello che viene. / Accogliere e in sè risuonare. / O darsi in opere e faccende, / scatenare le braccia in zappate potenti / e le dita accanirle / in opere e faccende e raccolta / e abbattere e piantare e crescere. / Oppure guardare, stare fermi, restare". Vorrei chiederti se pensi che questo isolamento conduca gli esseri umani a specchiarsi col loro Caino, col Caino che è in ognuno di noi.
«Sono sempre combattuta fra un agire furioso e molto attraente e una dimissione contemplativa, così come fra la vertigine dell’intelligenza e la quiete dell’ebetudine, e credo ci sia in questo l’eterno conflitto fra il nostro Caino interiore e il nostro Abele. La fattività e violenza di Caino, iniziatore delle nere arti della tecnologia, segnano in questo nostro presente un culmine da cui dovremo per forza tornare indietro, forse per la prima volta nella storia umana. Abbiamo ucciso abbastanza. Ognuno di noi, col suo modus vivendi, ha fatto violenza alla terra e al cielo e il bisogno di fermarci, avvertito ora da qualunque persona sensibile, contiene il desiderio di ritrovare un’alleanza con tutto il resto. Se questo desiderio ci guiderà verso un cambiamento, o se invece è solo un passeggero ravvedimento, lo vedremo appena usciremo dalle nostre case. Io credo che il prevalere della seconda ipotesi, segnerebbe la fine della nostra specie su questo unico, dolcissimo e, a dir poco, magnifico pianeta».

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