L'ex capo dei grillini in pochi mesi ha piazzato un esercito di 70 fedelissimi dentro ministeri, banche, società partecipate ed enti pubblici. Obiettivo: rafforzare la sua rete di potere. E riconquistare il M5S

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Negli ultimi giorni Luigi Di Maio ha deciso che doveva dare un colpo di reni. Una sterzata. Al governo, al M5S e al suo futuro personale. E così l’ex leader dei Cinque Stelle prima ha redarguito il suo “successore” Vito Crimi, reo di non aver subito stoppato le ipotesi democrat di una «sanatoria erga omnes» dei migranti agricoli. Poi ha messo in minoranza l’ala sinistra del movimento, secondo lui pericolosamente appiattita sul Pd su questioni divisive come Mes e immigrati. Infine s’è scontrato (ufficiosamente, s’intende) su quello che considera il più pericoloso dei rivali interni, Giuseppe Conte.

Il tema del contendere, stavolta, è stato il ritorno di Silvia Romano. «Dal 2012 a oggi su 20 casi una sola volta, ai tempi di Renzi, il rilascio di un nostro connazionale rapito era stato annunciato dal presidente del Consiglio», ha protestato con i suoi. «Prassi e logica vogliono che sia sempre la Farnesina a farlo. Serve rispetto istituzionale».
La scaramuccia è solo l’ultima del match per la leadership. Partita destinata a concludersi in autunno, quando sono previsti, Covid permettendo, gli Stati generali dei grillini per la nomina del nuovo capo politico. Il ministro, ad ora, ha deciso di non ricandidarsi. Ma sa che chiunque vorrà avere speranze di succedergli, dovrà bussare alla sua porta.

È infatti vero che l’ex «bibitaro del San Paolo», «inabile al modo congiuntivo», Di Maio è ancora irriso e dileggiato dagli antipatizzanti. Ma dietro l’ombra del gaffeur, gli avversari interni e gli amici in cerca di riscatto (in primis Alessandro Di Battista) sanno che è cresciuto un altro Di Maio. Un politico scaltro e calcolatore, con una rete di potere di tutto rispetto, che sarà comunque decisivo per il futuro del Movimento.
A due anni dal trionfo dei grillini alle elezioni del 2018, giostrandosi tra due governi, tre ministeri e una vicepresidenza a Palazzo Chigi, il ragazzo di Pomigliano ha dimostrato che il potere lo sa maneggiare. Nei palazzi ha imparato a muoversi con cinismo e imperio, e una capacità di lottizzazione seriale che nessuno gli accreditava.

Nell’ultimo anno, soprattutto, il ministro si è infatti dedicato anima e corpo alla costruzione di una galassia relazionale dentro gli apparati statali. Mettendo in piedi, ben oltre il suo storico cerchio magico targato Pomigliano, un gruppo di burocrati, amministratori delegati, vertici ministeriali e commis di società pubbliche che non rispondono né al movimento, né a Beppe Grillo né a Casaleggio. Ma direttamente a lui.
Partiamo dai dicasteri. Di Maio ne controlla, direttamente o indirettamente, almeno tre. Alla Farnesina, poco influente ai tempi di Enzo Moavero Milanesi, ha accentrato nelle mani sue e dei suoi centurioni (tra cui s’annovera il portavoce Augusto Rubei e l’ambasciatore Ettore Sequi, ex feluca a Pechino e oggi capo di gabinetto) non solo la diplomazia, ma pure la gestione del Commercio estero dell’Ice. L’istituto che cura il Made in Italy da sempre era ente vigilato dal Mise. Ma Stefano Patuanelli, messo lì a fare il ministro anche grazie ai rapporti stretti con Di Maio, è stato costretto ad accettare il ratto.

Anche la Simest, società di Cassa depositi e prestiti votata allo sviluppo all’estero delle nostre imprese, è finita sotto il controllo del Mae a inizio 2020: come presidente Di Maio ha voluto Pasquale Salzano, ex ambasciatore italiano in Qatar oggi pure a capo degli Affari internazionali in Cdp (guidata da un manager che a Di Maio deve più di qualcosa, Fabrizio Palermo).

Il numero uno di Ice è invece Carlo Ferro, che fu indicato al ministro direttamente da Assolombarda: il rapporto tra i due è ottimo, e Luigi spera che possa ora fare anche da “sherpa” con il nuovo leader di Confindustria Carlo Bonomi, che ha iniziato il mandato accusando Palazzo Chigi di essere “unfit” ad affrontare lo tsunami economico del Dopo Covid. Nell’Ice anche il direttore generale Roberto Luongo è considerato vicinissimo a Di Maio: spostato da Carlo Calenda ad altri incarichi nel 2016, è stato richiamato dal grillino e rimesso sulla sua vecchia poltrona.

Al ministero, oltre i Casaleggio Boys Cristiana Belotti e Pietro Dettori, nell’esercito di Luigi militava fino a qualche giorno fa anche Carmine America: l’ex compagno di scuola a Pomigliano d’Arco per 80 mila euro l’anno era «consulente per la sicurezza e difesa». Adesso è stato promosso (inopinatamente secondo i più) nel cda di Leonardo, il nostro colosso degli armamenti. A Piazza Monte Grappa il ministro a piazzato anche la professoressa del Link Campus Paola Giannetakis.

Alla Farnesina Di Maio e Sequi, ovviamente, comandano a braccetto con Elisabetta Belloni. Il segretario generale della Farnesina, stimata dall’intero arco costituzionale e dal Quirinale, è il perno di tutta la macchina da quattro anni, e non ha mai rischiato il posto. Anzi: nelle ultime settimane l’ipotesi accarezzata da Giuseppe Conte di sistemare sulla sua poltrona il fidato consigliere Pietro Benassi (con spostamento della Belloni ad altro incarico di rilievo, come i servizi di intelligence esterni che finiranno a Gianni Caravelli) s’è infranta sul niet di Di Maio.
Il grillino, ça va sans dire, ha poi lasciato allo Sviluppo economico una parte delle sue truppe. Patuanelli è circondato dalla segretaria Assia Montanino, assunta da Di Maio nel 2018, dal capo della segreteria tecnica Daniel De Vito, dal numero uno dell’ufficio legislativo Enrico Esposito, ex collega di università di Gigi scoperto dall’Espresso a twittare spazzatura omofoba. E se il fidato Salvatore Barca, figura centrale del Mise, è rimasto segretario generale con pieni poteri, l’ex capo di gabinetto del Mise Vito Cozzoli è stato invece spostato in una posizione di peso e prestigio: oggi è presidente di Sport e Salute, spa in house del ministero dell’Economia.

Anche Girgis “Giorgio” Sorial, dimaiano di ferro al centro di polemiche feroci per la mancanza di un’esperienza adeguata a gestire le difficili crisi aziendali che planano sui tavoli degli uffici di via Molise, sarà sostituito con un classico promoveatur ut amoveatur: per lui pare sia pronta una sedia da presidente della società Traforo del Monte Bianco (gli azionisti di maggioranza sono Autostrade e Anas), in sostituzione dell’ex senatore forzista Aldo Scarabosio in scadenza.

Al ministero del Lavoro i fedelissimi riferibili strettamente a Di Maio, oltre alla stessa ministra Nunzia Catalfo, non sono tantissimi: tra loro, c’è di sicuro il portavoce Luigi Falco. Ma quasi tutti i vertici delle agenzie chiave del settore sono ancora appannaggio della corrente di Gigi: all’Inps siede il presidente Pasquale Tridico e, nel cda, Rosario De Luca (Di Maio l’ha conosciuto ai tempi della vicepresidenza della Camera, e fu colpito da alcune sue proposte sul microcredito). All’Inail siede il vicepresidente Paolo Lazzara, professore che scrisse per Di Maio il decreto per i rider e che, ancora oggi, si interfaccia spesso e volentieri con il ministro per consigli e suggerimenti.
Anche il capo dell’Ispettorato nazionale del lavoro, il generale dei carabinieri Leonardo Alestra, è stato chiamato direttamente da Luigi per vegliare sui possibili furbetti del reddito di cittadinanza: il nome gli fu fatto dal comandante Giovanni Nistri, con cui Di Maio mantiene da sempre un ottimo rapporto.

«Non c’è bisogno di fischiare: da oggi lo Stato siamo noi», aizzava Luigi Di Maio da un palco davanti alla Bocca della Verità a inizio giugno 2018, un giorno dopo aver festeggiato la festa della Repubblica e giurato come ministro del Mise. Giustificò l’infelice uscita spiegando di star solo citando un libro del giurista Piero Calamandrei («uno dei più belli che ho letto», disse). Ma - visto l’abbuffata di nomine e incarichi nelle stanze dei bottoni - sembra che il ministro abbia studiato, più che il grande giurista, soprattutto i meccanismi del manuale Cencelli.
Negli ultimi mesi ha affondato gli artigli nel deep state chiamando all’Agenzia del Demanio (come direttore) Antonio Agostini, un funzionario in forze a Palazzo Chigi diventato amico di Luigi anni fa. Poi è stato il turno di Marcello Minenna al Demanio. Tra i due si contano alti e bassi: l’economista, considerato vicino a Roberta Lombardi, si dimise dalla giunta Raggi per via degli scontri con l’allora vicecapo di gabinetto Raffaele Marra. Una mossa che lo allontanò dal cuore dei vertici pentastellati. Di Maio racconta oggi che è stato lui a recuperare il rapporto chiamandolo alle Dogane: ultimamente i due si sentono spesso, anche perché hanno lavorato insieme all’approvigionamento all’estero dei dispositivi sanitari anti-Covid.

Totalmente “dimaizzata” appare anche l’Anpal, l’Agenzia per le politiche del lavoro. Qui Luigi ha prima ha chiamato dal Missisipi, come presidente, Mimmo Parisi, l’uomo che con un app avrebbe dovuto mettere in contatto “navigator” e i beneficiari del reddito di cittadinanza, e che - fallito l’obiettivo - si deve difendere per i rimborsi spese per voli in business class. Poi, ha infilato nel cda dell’agenzia pure Giovanni Capizzuto, il suo ex segretario tecnico del ministero del Lavoro.

«La rete di Giggino è gigantesca: voi parlate solo le nomine più discutibili, dei protegè più implausibili. Ma lui in pochi mesi ha allungato i tentacoli dappertutto», ragionano i nemici interni, tuttora orfani dei clichè delle origini in cui uno valeva uno e ogni scelta veniva ponderata e votata da tutti.

All’Enav Di Maio, senza chiedere il permesso a nessuno, nell’ultimo giro nelle partecipate ha invece piazzato Paolo Simioni, che fu ad di Atac dietro cooptazione diretta di Luigi (e dell’allora assessore casaleggiano Massimo Colomban); di seguito ha miracolato alla presidenza dell’Eni Lucia Calvosa (già nel cda del Fatto Quotidiano) in una partita difficilissima, vista la concorrenza di pezzi da novanta come Franco Bernabé (per Di Maio troppo vicino a Davide Casaleggio) e Gianni De Gennaro. Ancora, ha incoronato come presidente di Enel Michele Crisostomo, poi Elisabetta Lunati nel cda di Poste. «È in quota Stefano Buffagni», dicono i più preparati, «ma Di Maio ha dato il via libera». Anche Stefano Donnarumma, nuovo ad Terna, è considerato uomo dell’entourage di Buffagni, ma Alessandra Faella, cooptata nel cda dell’azienda che gestisce la rete elettrica nazionale, ha stretto rapporti solidi con Di Maio da anni. «Da quando l’ha conosciuta in Avio Aero, spa di General Electric che ha uno stabilimento a Pomigliano», spiega una fonte al Mise.

Se negli enti pubblici i dimaiani nelle posizioni di vertice sono una ventina (ci sono pure l’ex ministro Alberto Bonisoli riciclato alla presidenza del Formez, Giuseppe Morsillo al Centro italiano ricerche aerospaziali, Domenico De Maio - campano e grande amico anche di Vincenzo Spadafora - all’Agenzia nazionale per i giovani), il ministro degli Esteri ha voluto una trentina di accoliti nelle partecipate.

Nella cruciale Cassa depositi e prestiti, che gestisce i 300 miliardi dei risparmi postali degli italiani, non c’è solo Palermo, ma Di Maio può contare anche sull’amicizia di Francesco Floro Flores (imprenditore napoletano che risulta all’Espresso essere gestore dell’Arena Flegrea, dove si svolse “Italia a Cinque Stelle” nel 2019) e Fabiana Massa, napoletana e professoressa di diritto commerciale considerata una volta in quota Tria, oggi stimata dal pomiglianese.

Il sodale Emanuele Piccinno è finito all’Eni (è stato in passato consulente al Mise), mentre Marco Bellezza (suo ex consigliere all’innovazione allo Sviluppo economico) a gennaio è diventato amministratore delegato di Infratel, società in house del Mise che si occupa di banda larga. Non solo: Bellezza siede anche nel cda di Cdp Venture Capital, a cui fa capo il Fondo nazionale innovazione. Anche il presidente del fondo, Enrico Resmini, con Di Maio ha un eccellente rapporto.

Il caso
Tra Anas e ministero delle infrastrutture volano gli stracci
27/4/2020
La lista è sterminata. Comprende pedine importanti nelle banche, al Monte dei Paschi il nuovo ad Guido Basiannini è stato chiamato da lui e Riccardo Fraccaro. In Anas: l’ad Massimo Simonini è targato Cinque Stelle, e da poco ha assunto Massimiliano Gattoni, ex capo della segreteria di Danilo Toninelli ai Trasporti, come direttore di un dipartimento dedicato all’Innovazione. Nelle Ferrovie, nell’Ilva di Taranto, (qui Di Maio rimosse un anno fa i tre commissari Piero Gnudi, Corrado Carrubba e Enrico Laghi sostituendoli con Francesco Ardito, Antonio Cattaneo e Antonio Lupo). Pure nel cda di Invitalia il grillino ha chiamato qualche settimana fa fa una sodale di ferro: Paola Ciannavei, sorella dello storico avvocato dei grillini Andrea.

Gli Stati generali del Movimento sono alle porte. Chiunque voglia succedere a Di Maio, dovrà fare i conti con lui e la sua rete.