
L’apocalisse da Covid-19 ha alimentato una sorta di “danno indotto” sulle altre malattie, congelate per momenti migliori. Sull’altare dell’epidemia del secolo, sono stati infatti immolati i bersagli delle patologie classiche, “normali”. Da quelle croniche ai settori più problematici di tutti, l’oncologia e la cardiologia. Che continuano però la loro lunga marcia: piombano all’improvviso e possono condurre, anch’esse, e da sole, alla morte, senza il marchio Covid.
Tanto da far ritenere che la differenza statistica tra i decessi accertati di virus e l’aumento delle morti rispetto agli anni passati possa avere anche questa causa: la carenza di diagnosi e cure, da mesi, per tutte le altre malattie.
Maurizio Ortu, presidente dell’ordine dei medici dell’Aquila, usa la metafora del terremoto. Come quello che martoriò la sua città nel 2009: «Penso a tutti coloro che sono affetti da patologie importanti e per cui è necessaria assistenza continua e controlli periodici, o che non hanno potuto effettuare con la consueta regolarità trattamenti, analisi e visite per la ragione che gli ospedali, già in crisi per i continui tagli, sono costretti a focalizzare l’attenzione sul coronavirus», ci dice. Parla di “tempo sospeso” il professor Humberto Ramon Zanetti, specialista in ginecologia e psicoterapia cognitivo-comportamentale, per quindici anni primario dell’Aurelia Hospital di Roma: «Questa sospensione continua a incidere dannosamente sulle altre malattie.Tutto questo determinerà, con il ritorno alla normalità, uno stato di crisi del sistema sanitario che già prima non era in grado di soddisfare in tempi ragionevoli le richieste di esami strumentali e interventi chirurgici».
Malati in stand-by, insomma. Luigi è un cardiologo specialista, con oltre dieci anni di servizio in un ospedale del nord. Ci chiede di nascondere le sue generalità per raccontarci il grande caos che ha osservato: «Lì dove le figure apicali di riferimento, come i direttori sanitari, sono riusciti a mantenere la giusta freddezza, c’è stata un’organizzazione comunque razionale delle risorse: sia umane (dei medici e infermieri al “fronte”) sia alberghiere, nel senso dei posti letto. Dove invece sono stati gli eventi a dominare, è stata la catastrofe: sanitari esposti privi di Dpi, percorsi e flussi ospedalieri babelici e mai strutturati. Insomma, si è avuta la conferma dell’impreparazione della maggior parte di noi sui temi del risk management, cosa sulla quale io e altri colleghi riflettevamo già in tempi non sospetti».
Nel vortice sono finiti centrifugati pure gli avamposti della nostra sanità. Prendiamo l’oncologia. Sono stati 371 mila i nuovi casi di tumore diagnosticati nel 2019 nella nostra penisola, la gran parte dei quali sottoposti a intervento chirurgico. Ora la quota di diagnosi e interventi si è ridotta drasticamente: non vuol dire che ci si ammala meno, ma che la malattia viene scoperta e curata meno.

I pazienti, poi, si sono spesso sentiti abbandonati a se stessi. Secondo un questionario realizzato da Codice Viola, un’associazione che si batte per la qualità della vita degli affetti da cancro del pancreas e condotto su un campione di quasi 500 malati, l’81 per cento ha avuto notizia della cancellazione di visite, terapie e operazioni senza che gli venisse prospettata un’altra modalità. L’11 per cento si è visto annullare la seduta chemioterapica. Rinviati d’imperio e a data da destinarsi, nel 42 per cento dei casi, i controlli durante la terapia: il follow-up.
Sulla stessa lunghezza d’onda un sondaggio promosso dall’Università Politecnica delle Marche e dagli Ospedali Riuniti di Ancona: su 400 oncologi coinvolti, il 93,5 per cento ha ammesso di aver dovuto ripensare completamente la propria attività clinica. Il 35 per cento non è stato informato o ha ricevuto scarse indicazioni sulle procedure anti-Covid da adottare. Il 60 per cento si è professato preoccupato nel rimandare un trattamento oncologico o un esame strumentale; il 21 per cento ha rivelato di non aver ricevuto dispositivi di protezione adeguati e rapidi.
L’Aiom (associazione italiana oncologia medica) ha rivendicato tuttavia l’esigenza di limitare gli accessi in ospedale dei malati oncologici, immunodepressi per definizione, specie se sotto chemio, per abbattere il rischio di un loro contagio accidentale. Gli stessi dati della Protezione civile attestano che il 20 per cento dei positivi e deceduti per coronavirus aveva sviluppato una forma tumorale nei cinque anni precedenti. Largo quindi alle consultazioni telefoniche, via mail o tramite WhatsApp, ai tentativi di telemedicina e al differimento degli screening oncologici di primo livello: dalle mammografie ai pap-test, al controllo del sangue occulto nelle feci per il carcinoma al retto-colon. Parola d’ordine, posticipare il posticipabile. Non dimenticando che parecchi malati del centro-sud sono in cura nelle strutture oncologiche del nord, Milano in primis. Lo stop al pendolarismo di ogni tipo li ha perciò colpiti pesantemente.
E c’è da tener conto delle ripercussioni psicologiche di chi è sotto scacco di due mostri: il tumore e la paura del virus. Sostiene Florence Didier, psicologa e psicoterapeuta dell’Istituto europeo di oncologia (Ieo): « Una fatica doppia, e nei pazienti ormai lontani dalla diagnosi questa situazione generale sta riattivando timori ed eventi traumatici già affrontati a livello personale». Demoni che ritornano.
Ma non c’è solo il cancro. Secondo l’Istat, ogni giorno nel nostro paese muoiono 638 persone di malattie del sistema cardiocircolatorio. E sta accadendo qualcosa di molto preoccupante: gli accessi per infarto miocardico nei pronto soccorso, diretti o con chiamata al 118, si sono dimezzati. «L’infarto è un avvenimento altamente tempo-dipendente, e più si indugia, maggiore è la compromissione del muscolo cardiaco. Ogni minuto è prezioso», dice Giuseppe Tarantini, presidente del Gise, la società italiana di cardiologia interventistica. A Bologna, nel primo trimestre del 2020 gli accessi in ospedale sono precipitati del 20 per cento per gli infarti più gravi e del 40 per cento per i più leggeri. Ai livelli di trent’anni fa. Conferma il dottor Marco Caruso, cardiologo interventista all’Arnas Civico di Palermo: «Ho confrontato gli accessi per infarto acuto nella nostra emodinamica dall’11 marzo all’11 aprile e ho notato, rispetto al medesimo periodo del 2019, un crollo del 30 per cento». Il motivo è presto detto, come ci dice Davide Ventre, cardiologo dell’équipe del policlinico San Marco di Zingonia, in provincia di Bergamo: «Il terrore di recarsi in un luogo potenzialmente affollato da pazienti Covid ha prevalso sulle manifestazioni acute delle patologie. Immagino un cardiopatico ischemico che preferisce abusare di nitrati sublinguali a ogni attacco anginoso, piuttosto che accedere in ospedale in questo periodo».
Del resto non mancano i casi di persone che erano ricoverate per problemi diversi dal virus e sono uscite dall’ospedale dentro una bara dopo aver preso lì il Covid. Effetti collaterali dell’iniziale promiscuità e mancanza di compartimenti stagni tra i reparti. Le cronache locali sono piene di queste storie: da chi si è rotto una gamba, è entrato in ortopedia, poi ha preso il virus ed è deceduto, fino a chi ha conosciuto la stessa fine dopo essere stato ospedalizzato per una pancreatite.
Poi ci sono i pazienti psichiatrici: anche per loro questo periodo è difficilissimo. Dice il professor Armando Piccinni, psichiatra e presidente della fondazione Brf (istituto per la ricerca scientifica in psichiatria e neuroscienze): «Hanno vissuto in modo accentuato l’aspetto emotivo della condizione di chiusura, avvertendo prevalentemente il risvolto della costrizione e dell’obbligo. Ho ricevuto numerosissime richieste da parte di pazienti che mi chiedevano certificazioni che gli consentissero di uscire». Con le loro antenne speciali, «hanno captato prima di noi la gravità della situazione, l’incertezza del futuro, l’incapacità di scorgere una soluzione in tempi brevi e prevedibili, la sensazione di non tornare più alla vita di prima». Una sua assistita, claustrofobica e affetta da attacchi di panico, che viveva da tempo una condizione di equilibrio, «ha ripreso a manifestarli in maniera incontrollabile. È migliorata solo trasferendosi in campagna, nella casa della madre, dove può trascorrere le giornate in un giardino all’aperto».
Ma anche chi è semplicemente in psicoterapia ha avuto problemi: molti analisti si sono convertiti alle visite in video, altri però hanno abbandonato i pazienti a se stessi, proprio quando ne avevano più bisogno.
Non resta ora che provare a immaginare il ritorno alla normalità, se arriverà. «Quando la fase radicale della pandemia sarà terminata, avremo davanti a noi le macerie che si sarà lasciato alle spalle. Con tutti gli strascichi legati al pensiero del pericolo corso e superato, all’elaborazione dei lutti dei parenti, degli amici e dei conoscenti, alle drammatiche conseguenze economiche, finanziarie, lavorative e sociali da affrontare».