Hegel, Lukács e i loro seguaci consideravano l'universo una totalità compatta. Poi però il pensiero si è segmentato. E oggi, nello spaesamento causato dall'epidemia, serial tv, cinema e letteratura possono fornire un’immagine complessiva della realtà

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C'era una volta la totalità: concetto-chiave della filosofia di Hegel (come vetta della conoscenza filosofica); categoria fondamentale della teoria marxista (in Lukács e non solo); massima aspirazione del governo fascista e dei regimi che, sulla sua scia, si sono definiti, appunto, “totalitari” (nel tentativo di controllare ogni ganglio della società); presupposto (non sempre esplicitato) di qualsiasi ipotesi di “piano” o programmazione economica.

Poche parole astratte hanno segnato con tanta forza la storia del XX secolo. E poche, ovviamente, sono state altrettanto combattute. Dai liberali, ostili a qualsiasi sintesi finale che cancellasse le differenze. Dagli stessi marxisti, desiderosi di affrancarsi dalla matrice hegeliana del loro pensiero. Ma anche, più in generale, da tutti gli empirici e i post-metafisici, i quali vedevano in essa un retaggio di quel pensiero religioso che attraverso simili astrattezze ancora avvelenava i pozzi del pensiero. Con l’eccezione degli ecologisti, chiamati “per statuto” a porsi il problema dei limiti delle risorse e dell’impatto dei sapiens sapiens sull’intero pianeta, prima che il secolo fosse concluso la totalità (o, come pure si diceva, “l’Assoluto”) era finita tra gli attrezzi filosofici di cui nessuno sapeva più che fare, e che potevano tranquillamente essere dismessi assieme all’idea che la politica avesse qualcosa da dire sull’indirizzo dell’economia.

Le questioni scottanti di cui si faceva carico l’idea di totalità sono ancora lì, ma le parole con cui se ne discute sono cambiate. Oggi, per esempio, si fa continuo uso della nozione, apparentemente affine, di globalizzazione. La globalizzazione però non è la totalità: è un processo, un costante movimento di merci, idee e uomini, il cadere delle barriere in un mondo nel quale i vecchi confini sono saltati, e persino le cose in apparenza rimaste uguali nel nuovo quadro hanno finito per caricarsi di significati inediti. La somiglianza tra i due concetti si ferma alla scala. Semplificando un poco, si potrebbe dire persino che la globalizzazione, feticcio massimo del pensiero neo-liberale, sia la totalità meno il punto di arrivo. A milioni, o a miliardi, esistono solo casi individuali: nessuna visione d’insieme è possibile.

Che la totalità – o, per meglio dire, la sua eclissi – potesse avere direttamente a che fare con il senso di spaesamento con cui il Coronavirus è stato accolto dalla comunità scientifica in Occidente lo si è capito nelle prime settimane dell’epidemia. Tutti ricordano la diagnosi iniziale degli esperti: nessun allarme, si tratta di poco più di un’influenza. Era vero. Per quanto l’indice di letalità rimanga incerto (essendo incerto il numero dei contagiati), è stato chiaro subito che il Covid non era il virus Ebola. Eppure, abbiamo imparato presto, ciò vale solo sino a quando la malattia è trattata in modo appropriato. Che succede invece quando le strutture mediche si saturano? Ecco che l’influenza diventa qualcos’altro, e i morti si moltiplicano.
 
È la storia che abbiamo vissuto un paio di mesi fa, quando si è sfiorato il tracollo del sistema sanitario e ogni giorno la Protezione Civile era costretta a offrire il conto alla rovescia degli ultimi posti in terapia intensiva ancora disponibili. Rispetto alle prime settimane, il virus non era mutato, ma si era capito che non bastava più osservarlo malato per malato: serviva uno sguardo complessivo. Ma la fobia della totalità che in tutte le sue forme caratterizza il nostro tempo è evidentemente così forte che per parecchi giorni anche i massimi esperti non sono stati in grado di porsi la domanda elementare di che cosa sarebbe successo se i casi singoli fossero diventati centinaia di migliaia (o, potenzialmente, milioni). Un perfetto esempio di accecamento ideologico, per giunta in un campo – la scienza – che si vorrebbe impermeabile alle passioni umane.
    
Nonostante trent’anni d’interdetto, provare a osservare il mondo dal punto di vista della totalità può essere ancora oggi un esercizio mentale produttivo. Il grande problema è che questo punto di vista è estremamente difficile da attingere. E qui, prima che politica, la difficoltà si direbbe estetica. Lo sanno bene narratori e registi: come si rappresenta il Tutto – fosse anche il Tutto, pur così limitato, di questo pianeta? Le religioni e le mitologie sapevano farlo egregiamente; con l’espandersi del mondo conosciuto dagli occidentali e il suo intrecciarsi progressivo, la letteratura moderna si è invece trovata spesso davanti a una impresa disperata.  

Non bisogna sorprendersi se – via Hegel – negli ultimi decenni sia stata la teoria critica più legata alla tradizione del marxismo a interrogarsi sulla questione. I termini del problema sono impostati correttamente già in un libro del grande teorico del Postmoderno Fredric Jameson, “The Geopolitical Aesthetic” (1991). Jameson era colpito dal gran numero di film che nel corso degli anni Settanta mettevano in scena progetti cospirativi, da “Blow Up” di Antonioni a “Blow Out” di Coppola, passando per “Videodrome” di Cronenberg e “I tre giorni del Condor” di Pollack. Invece di darne una banale spiegazione in chiave sociologica (un effetto dello scandalo Watergate che affossò la presidenza di Nixon), Jameson vi intravide il desiderio di offrire una raffigurazione tangibile di un potere che nel frattempo, anche grazie alla finanziarizzazione dell’economia, era divenuto sempre più globale e sempre più immateriale. In questi film c’è infatti sempre un momento in cui l’eroe penetra in uno spazio protetto, dove sono conservate o da cui si diffondono le informazioni: una centralina telefonica, un laboratorio, una biblioteca, uno studio televisivo. Il luogo da cui – in maniera paranoica – è possibile sperimentare per un istante la vertigine della totalità.
                                                      
Alla teoria successiva Jameson ha lasciato in eredità un concetto assai produttivo, quello di “cognitive mapping”, mappatura cognitiva. L’uomo moderno non sa più orientarsi nel suo spazio, come la Felicité di “Un cuore semplice” di Flaubert (l’esempio preferito di Jameson). Proprio per questo però la grande sfida conoscitiva (e politica) della letteratura e del cinema rimane tuttora quella di offrire un’immagine comprensibile del mondo in cui ci muoviamo dopo che questo mondo si è allargato a dismisura e i rapporti di forza si sono fatti invisibili. Così, nello stesso momento in cui politica, economia e filosofia dichiaravano l’embargo alla totalità, i narratori non hanno smesso di cercarla, al punto che qualche anno fa un giovane critico, Stefano Ercolino, ha provato a riunire alcuni dei libri più significativi dell’ultimo quarto di secolo sotto l’etichetta di “romanzo massimalista” (2015).

E non è un caso che il problema sia avvertito particolarmente dagli scrittori statunitensi, dal momento che è lì che sembrano convergere oggi tutti i fili incorporei che corrono per il mondo. Per ricordare solo due degli esempi migliori, mentre in “Underword” di De Lillo la contemporaneità trova la sua forma nel ciclo di consumo, stoccaggio e riciclaggio della spazzatura, nei “I lanciafiamme” di Rachel Kushner è la corsa di una motocicletta – mito futurista per eccellenza – a legare l’Egitto di inizio Novecento, la foresta amazzonica degli anni Cinquanta, la New York di Warhol e la Roma dell’Autonomia Operaia degli anni Settanta. Il connettivo scelto rimane in ogni caso secondario. Quello che conta è la possibilità di dotarsi di un filo di Arianna che permetta di attraversare il labirinto e di sfidare un Minotauro tanto più forte quanto meno si lascia vedere.

Invisibile, forse persino inconcepibile, la totalità ci lancia una sfida. Un indizio che forse non sono solo i pensatori radicali e gli ecologisti militanti ad avvertire il bisogno di questo sguardo complessivo, che raccordi assieme tutte le parti potrebbe venire da un fenomeno che apparentemente sembrerebbe non avere nulla a che fare con simili interrogativi: l’inarrestabile successo delle serie televisive. Di questo, senza dubbio uno dei caratteri più importanti della cultura dell’ultimo decennio, sono state offerte le spiegazioni più diverse – estetiche e sociologiche, produttive e tecnologiche.

E se invece, banalmente, dietro il gusto degli spettatori per questo nuovo format si annidasse il desiderio inconsapevole che, mimandone l’estensione e la complessità, qualcuno provi a mettere ordine in un mondo fattosi sempre più difficile da penetrare? Quasi che aumentando la scala, il numero dei personaggi e delle relazioni fosse possibile cogliere qualcosa che con un film di due ore non si capirebbe mai. È inutile dire che la maggior parte delle serie televisive sprecano questa opportunità e nemmeno si pongono il problema di quello che si può fare quando il tempo del racconto si dilata tanto.

Ci sono però delle eccezioni positive: e non sorprende che la riflessione più acuta sullo spaesamento spaziale e cognitivo del nostro tempo, e sugli sforzi delle diverse arti per superarlo – “Cartographies of the Absolute” di Alberto Toscano e Jeff Kinkle (2015) –, si soffermi a lungo sulla serie “The Wire” di David Simon (2002-2008), dove la rappresentazione minuziosa della vita di una città distrutta dalla ristrutturazione economica si allarga improvvisamente sul mondo grazie ai container che legano il porto di Baltimore al resto del pianeta. Altri esempi sarebbero possibili (“True Detective”?). Ma il punto importante, in fondo, è un altro. Bistrattata, derisa, condannata, grazie a narratori e registi la totalità continua più che mai a interrogarci. E per provare a darle un volto ora ci sono anche degli strumenti nuovi.