James K. Galbraith, docente all’Università di Texas ad Austin parla dell'effetto del Covid sull'economia Statunitense e globale. E spiega la sua ricetta per una vera ripartenza

James K. Galbraith
Riaprire l’America «è un’illusione», la ripresa veloce «è una fantasia». Per James K. Galbraith, docente all’Università di Texas ad Austin e autore di libri importanti sull’economia politica (“Welcomed to the Poisoned Chalice”; “Inequality”; “The End of Normal”), la pandemia sta sgretolando l’intero sistema economico Usa. Un castello di carte che non va ricostruito con gli stessi materiali e secondo gli stessi progetti di prima. Ma rifondato a partire da un vero Green New Deal e soprattutto da un modello cooperativo. Che venga chiamato socialista, socialdemocratico o pragmatico conta poco. Perché l’alternativa, spiega Galbraith in quest’intervista all’Espresso, è «il capitalismo del disastro e la catastrofe sociale».

Professore, lei ha scritto che nelle pandemie ci sono tre fasi: l’emergenza, il contenimento e le conseguenze. Prima di affrontare quest’ultimo punto, come giudica il modo in cui il governo Usa ha gestito le prime due fasi?
«Con incompetenza, arroganza, negazione della realtà. Sabotaggio della salute pubblica. C’è stato un ritardo enorme, colpevole, da metà gennaio circa a metà marzo. Anche da qui deriva l’alto numero di contagi e morti. Molte persone potrebbero essere ancora vive. Ora ci sono invece forti pressioni affinché si consideri conclusa positivamente la fase di contenimento. Le ragioni sono politiche: le elezioni si avvicinano e la gente deve tornare a pensare normalmente, le statistiche economiche devono restituire dati incoraggianti. Ma la realtà racconta una storia diversa, drammatica».

Dal pacchetto miliardaro di “stimoli” approvato dal Congresso Usa al Recovery Fund della Ue, con il Covid gli Stati hanno ricominciato a spendere. Per qualcuno, si tratta di inversioni di rotta e cambiamenti nel pensiero economico. Lei che cosa ne pensa?
«Bisogna vedere come verranno spesi questi soldi. Il mio timore è che non si tratti di un vero cambiamento di mentalità, ma della replica di quanto fatto nel 2008, con l’obiettivo di salvare soprattutto le corporation e il settore finanziario. Il guaio è proprio questo. Osservatori come Paul Krugman, Sebastian Mallaby e Jason Furman continuano a pensare che siamo di fronte a uno shock economico-finanziario come gli altri. E che vada affrontato, al solito, con uno stimolo finanziario. Un’analogia medica ridicola: un organismo soffre, gli viene iniettata una sostanza e l’organismo torna a vivere e correre nuovamente, a “crescere”. Passa per una nozione keynesiana, ma è una tesi ridicola. E oggi pericolosa».

Il “ritorno alla normalità” non ci sarà?
«Il futuro, almeno prossimo, non assomiglierà affatto al passato. Negli Stati Uniti interi settori cruciali dell’economia, dalle linee aeree alle navi da crociera, verranno fortemente ridimensionati, al di là degli aiuti che riceveranno. Un esempio: siamo tra i primi produttori di aeroplani, una delle industrie più importanti, con una lunga catena di fornitori. Oggi che le flotte sono ancora in gran parte parcheggiate, chi comprerà i nuovi aeroplani? Lo stesso per l’edilizia commerciale: se gli uffici rimangono vuoti, chi ne comprerà o affitterà di nuovi? Ciò che la gente farà con i propri soldi sarà diverso dal passato. I posti di lavoro persi non torneranno di punto in bianco, così come i redditi andati perduti, che non verranno recuperati del tutto. Ci sarà una profonda depressione economica. E questo vale anche per l’Italia».
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Lei sostiene che la pandemia abbia già archiviato il vecchio sistema e che la scelta sia netta: o sottomettersi al capitalismo del disastro o rivendicare un cambiamento totale. Ma che cosa intende per “capitalismo del disastro”?
«Negli Stati Uniti gli investitori privati predatori, che hanno fondi e capitali a disposizione, cercano di accaparrarsi nuove proprietà e quegli asset il cui valore si riduce per la pandemia; in ambito commerciale ci sono già sfratti e pignoramenti e potrebbero esserci svendite generali in futuro. I grandi proprietari immobiliari replicano la strategia del 2008-2009: trasformare i piccoli proprietari di case in affittuari e gli affittuari in senza-casa. Durante la crisi finanziaria si è provato a trasferire la responsabilità dalle banche ai cittadini che avevano sottoscritto contratti fraudolenti, ma in questo caso non è possibile. La gente è stata in casa come richiesto ed è sempre più consapevole che non tutti i debiti vanno ripagati, che gli accordi possono essere rinegoziati. Vedo meno accettazione e più resistenza. Rimane il fatto che ci sono 30 milioni di disoccupati e che milioni di posti di lavoro non torneranno più, salari e redditi sono spariti. Una catastrofe sociale».

Per fronteggiarla, lei non invoca la “veloce ripresa” di cui parla Paul Krugman, ma un ripensamento dell’intero sistema economico e sociale. Di cosa si tratta?
«Occorre creare un nuovo sistema. Non c’è alternativa a un modello cooperativo, di sostegno reciproco, con uno Stato responsabile, capace di tenere a bada le spinte predatorie. Il settore pubblico e non profit va mobilitato per assicurare posti di lavori e reddito. Innanzitutto va affrontata la pandemia. Serve gente che studi e monitori la situazione, che si prenda cura dei malati, che tracci i contagi. La sanità pubblica per anni è stata negletta, smantellata: deve essere un bene universale. Servono milioni di posti di lavoro nei servizi cruciali, nelle forniture di cibo e prodotti essenziali. Poi c’è la necessità, legata ai cambiamenti climatici, di modificare tutta la struttura di produzione, trasformazione e consumo energetico. Se vogliamo evitare una catastrofe sociale vanno mobilitate ingenti risorse pubbliche».

Ritiene che questo possa risolvere la situazione e che lo Stato debba farsi “datore di lavoro di ultima istanza”?
«La garanzia del lavoro, l’idea dello Stato come datore di lavoro di ultima istanza è al centro della proposta per un Green New Deal. Anziché lasciare i cittadini disoccupati e dargli un contributo per la disoccupazione, si creano le condizioni affinché chiunque lo voglia possa svolgere un lavoro socialmente utile e retribuito secondo il minimo salariale. Lavori con i quali vengono rafforzati beni comuni come salute, educazione, tutela dell’ambiente. Non si tratta di sostituire del tutto i sussidi alla disoccupazione, ma di creare un’alternativa realistica per milioni di persone. Una misura che beneficia l’intero sistema economico e che ritengo preferibile al basic income, almeno negli Stati Uniti, dove c’è una cultura più orientata al lavoro come attività produttiva».

Dal 1996 al 2016 lei ha presieduto l’associazione Economists for Peace and Security. Ritiene che la pandemia modificherà l’idea di sicurezza, finora associata a quella militare e, nel caso degli Usa, alla “proiezione” di potere all’estero?
«La sicurezza va interpretata in modo ampio, come sicurezza sociale ed economica, nel lavoro, nella casa, nel cibo, nelle prospettive future di ogni cittadino e famiglia. Abbiamo sempre ritenuto sbagliata l’idea, erede della fine della Guerra fredda, che gli Usa siano l’unica superpotenza, garante dell’ordine mondiale, perché si fonda su una premessa fallace: il potere militare come strumento per ottenere sicurezza. Difficile prevedere cosa accadrà. Ci sono ancora dinamiche politiche e potenti attori che spingono per l’avventurismo e per le spese militari. Per me, gran parte della spesa militare andrebbe indirizzata a costruire le vere difese del Paese: sanità pubblica, ospedali, lavoro e sicurezza economica e sociale per tutti e una radicale riforma progressista della struttura dell’economia. La pandemia ha dimostrato che abbiamo un’economia forse efficiente, ma estremamente fragile e ingiusta. E ora si sta sgretolando di fronte ai nostri occhi».