Sfidava il monopolio Rai e faceva informazione dal basso sulle ali del Sessantotto. Ma presto fu schiacciata dalla paura della Dc e dalla miopia dei comunisti. Che spalancarono la strada al futuro impero Fininvest

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Correva l’anno 1970. Mentre alla Rai il vicepresidente Italo De Feo metteva sotto accusa Tv7, il programma informativo di punta dell’azienda, per un servizio di Sergio Zavoli sul vecchio codice fascista Rocco e Mike Bongiorno tornava con “Rischiatutto” ai successi di “Lascia o Raddoppia?”, in una cittadina piemontese si dava vita ad un nuovissimo esperimento di tv, frutto dell’intraprendenza di Giuseppe “Peppo” Sacchi.

Sacchi lavorava proprio alla Rai, ma in passato aveva collaborato alla tv svizzera familiarizzando con la tecnologia del cavo. All’iniziativa non erano estranei i fermenti sessantottini, l’insofferenza verso la tv di Stato di Ettore Bernabei e De Feo, nonché le mitologie della comunicazione dal basso e della controinformazione. Il modello nazionale per la verità era stato già messo in discussione negli anni Cinquanta da privati che avevano rivendicato il diritto ad una tv in nome dell’art. 21 della Costituzione, istanze da cui era scaturita la sentenza della Corte del 1960 che sanciva il monopolio.

In realtà Sacchi il primo esperimento lo aveva fatto già a dicembre del 1967 registrando nell’hotel Colibrì di Biella uno spettacolo, poi in onda con un rudimentale collegamento con tre televisori sistemati in altrettanti luoghi del centro: due presentatori, un gruppo jazz, una recita di poesie locali, un notiziario e un po’ di pubblicità alla maniera di Carosello. Solo però nel 1970 i «tupamaros del video», come li definì l’Espresso, davano vita ad una vera emittente. Esperienze simili in realtà ce n’erano state, anche se di breve durata: tanto per restare in Piemonte, il 15 gennaio di quell’anno TeleTorino aveva chiuso dopo poche settimane. Esperienze di tv alternativa erano state anche quelle varate dai comunisti nel 1968, però sia Terzo Canale (un sistema capillare che distribuì programmi nelle sezioni del Pci durante le elezioni politiche) che Tv Libera (una tv a circuito chiuso nella festa nazionale de l’Unità di quell’anno) si erano concluse presto.

Di tv privata insomma in Italia si era parlato poco, ma con la nascita di Telebiella, che all’inizio si chiamava Videoinformatore A21-Tv (dove A21 si riferiva all’articolo della Costituzione), le cose cambiarono. La tv, che trasmetteva una o due volte la settimana, dopo qualche tempo veniva registrata come “periodico audiovisivo”, ma con il trascorrere dei mesi Sacchi cercava di capire se la sua creatura potesse reggere a quella tollerata clandestinità. Infatti la tv biellese godeva di una curiosa situazione di vacatio legis, quasi un tratto caratteristico, come sappiamo, delle tv private che però per Telebiella non durò molto.

L’emittente via cavo trasmetteva approfittando del fatto che la legge che regolamentava la materia, ovvero il vecchio codice postale, risaliva al 1936 e per ovvi motivi non contemplava la nuova tecnica di trasmissione. Dunque, in assenza di un divieto esplicito, Sacchi e i suoi collaboratori approfittavano dell’impasse normativa per far crescere la loro «tv da cortile», come la chiamavano sarcasticamente i suoi colleghi della Rai. Ad esempio durante le elezioni del 1972 l’emittente varava delle vere tribune politiche con i candidati locali. L’interesse si andò moltiplicando e nel corso dell’anno l’emittente cablava la città con otto chilometri di cavi per i nuovi abbonati.

La situazione però si complicava nel 1973 quando Sacchi convinceva un amico a denunciare TeleBiella per violazione del codice postale, certo di una sentenza favorevole che lo avrebbe messo al sicuro. La sentenza favorevole infatti giungeva il 24 gennaio, ma proprio quest’ultima catalizzava l’attenzione della stampa nazionale e delle forze politiche: articoli e reportage si moltiplicavano, ma crescevano anche le attenzioni del governo che, resosi conto del vuoto normativo, dopo un paio di inutili aut aut all’emittente, varava a maggio un nuovo codice postale con l’esplicito divieto ai privati di trasmettere via cavo. A questo punto il destino di Telebiella era segnato. Un mese dopo i funzionari dell’Ecopost si presentavano nella sede e tagliavano i cavi mettendo di fatto fine a quella esperienza oramai spintasi troppo oltre. «Un fatto assai grave», commentava il giorno dopo sul Corriere della Sera il giurista Paolo Barile.

Sull’esempio di Telebiella, però, sin dall’anno precedente erano nate sul territorio, dal Piemonte alla Sicilia, decine di altre esperienze simili. Ciò avveniva nella totale incomprensione delle forze politiche di governo e della stessa sinistra, la quale considerava il cavo quasi una truffa senza accorgersi che il fenomeno, che incrinava per la prima volta lo storico monopolio, andava governato ma non ostacolato. Sfidando questa miopia Eugenio Scalfari nel gennaio del 1972 aveva sostenuto controcorrente sull’Espresso che continuare a discutere astrattamente, dopo avere visto quanto passava sui teleschermi, se il monopolio fosse preferibile a un eventuale oligopolio privato era una giaculatoria inutile: «Dobbiamo invece stabilire se il monopolio di Ettore Bernabei, appena velato dalla benevola copertura di Luciano Paolicchi e d’una mediocre e corrotta frangia di sedicenti intellettuali progressisti, abbia reso e possa rendere al paese dei servizi informativi migliori di quanto non facciano quotidianamente i Crespi col Corriere della sera, Agnelli con La Stampa, i Perrone col Messaggero e il partito comunista con l’Unità». Del resto, profetizzava, «i progressi tecnici dei satelliti e delle video cassette stanno sempre più avvicinando il momento in cui il monopolio cadrà per ragioni tecniche»: si stava «dunque discutendo di una cosa che tra due o cinque anni non ci sarà più per mancanza di oggetto».

Per una sinistra all’epoca strenua sostenitrice del modello vigente di tv il tema della libertà d’antenna sollevato dal giornalista era una «cortina fumogena» (scriveva l’Unità) per mascherare il tentativo di sferrare un colpo alla libertà d’informazione. Riccardo Lombardi, pure compagno di partito di Scalfari (che era stato deputato del Psi), affermava che l’attacco al monopolio pubblico si era sempre servito «di motivazioni di sinistra per perseguire scopi di destra», mentre Giuliano Amato giudicava la tesi scalfariana, «anche quando espressa con nobiltà d’intenti, inaccettabile perché antistorica».

Ma la contrarietà a dire il vero era abbastanza trasversale e, a parte i liberali, a tutti il monopolio sembrava l’unico orizzonte possibile in tema di emittenza. Anche il progetto della commissione Quartulli del 1972, che apriva alla tv via cavo privata pur in ambito locale, veniva accantonato senza tante proteste: l’obiettivo era piuttosto una riforma della tv statale che attendeva da anni e che vide la luce nel 1975. Del tutto priva però dei necessari dispositivi legislativi per affrontare la rivoluzione tecnologica in corso, che proprio Telebiella aveva in qualche modo incarnata. Anzi, proprio dall’emittente piemontese era partita l’onda d’urto che nel giro di pochi anni avrebbe dissolto il sistema tv nazionale grazie anche alle sentenze della Corte del biennio ’74-’76, di certo figlie delle effervescenze delle tv via cavo.

Contemporaneamente alla sua nascita però e nella stagione che ne derivò, di fronte alle novità tecnologiche e culturali che rendevano il modello tradizionale di comunicazione obsoleto (nascevano le videocassette e le videocamere a portata di tutti) si andò sedimentando un sentire politico chiuso e incapace di gestire un passaggio epocale. In particolare la sinistra, che pure aveva in sé le risorse culturali per un approccio differente come abbiamo visto, o meglio una parte di essa, si schierava da allora in poi a difesa dell’ente pubblico concentrandosi sulla difesa della riforma del ’75 e mostrando insofferenza verso le tv private che andavano sorgendo un po’ dappertutto.

Eppure proprio il cavo e le esperienze come TeleBiella se debitamente riconosciute e disciplinate nella riforma del 1975 (in realtà su scala locale veniva ammesso il cavo, ma nella forma monocanale del tutto antieconomica), avrebbero rappresentato un freno al dilagare della confusione catodica della seconda metà del decennio. Dopo la sentenza del ’76, che liberalizzava l’etere in ambito locale, l’assenteismo politico fu totale, in parte complice e in parte no. Mentre a sinistra la cultura giuridica marxista si appropriava della riforma facendone per alcuni anni l’esegesi, considerandola l’elemento dimostrativo di una nuova giurisdizione del “pubblico”, fuori da quest’ultimo cresceva nell’indifferenza generale tutto un altro mondo, caotico e disperso che presto Silvio Berlusconi avrebbe trasformato nel più grande monopolio televisivo privato d’Europa. Tutto ciò accadeva, almeno fino alla fine dei Settanta, nell’indifferenza di una parte della sinistra che non seppe vedere i pericoli futuri, il Far West e la legge del più forte che incombevano, mentre un’altra parte con questo disordine pensò di conviverci sperando, a torto, di trarne vantaggio politico. Abbiamo visto come è andata a finire.