Striscioni, messa e saluto romano: i neofascisti omaggiano Diabolik a un anno dalla uccisione

Il narcotrafficante Fabrizio Piscitelli, ammazzato per un regolamento di conti, viene ricordato come un eroe. Con tanto di rituale religioso questa sera, affissioni sui muri di Roma e il "presente" così caro all'estrema destra

Nell’antica Roma si celebravano i “Parentalia” dei giorni dedicati al ricordo dei defunti, in quell’occasione si pensava che le anime potevano muoversi liberamente tra i vivi sia per rivedere i propri cari che per organizzare terribili vendette. I vivi e i morti. Duemila anni dopo a Roma poco o nulla è cambiato, il culto dei morti, la loro santificazione facendo riecheggiare gesta e nome sui muri della città sembra un rituale che nessuno vuole fermare. Nella moderna mitologia urbana però l’eroe è di solito l’antagonista colui che in vita si è fatto spregio della legge degli uomini e di dio. Leggi che Fabrizio Piscitelli aveva calpestato nel corso della sua vita ma che non sembrano essere l’ostacolo per essere ricordato come un “semidio”. Un po' santo e un po' assassino, un po' padre di famiglia e un po' capo spietato di una legione di fascisti che facevano affari con la criminalità organizzata e la domenica andavano in Curva Nord a sostenere la Lazio utilizzando quel serbatoio per radicarsi e fare proseliti.

Questo cursus honorum non ha impedito di ricordare con manifesti e murales comparsi in ogni angolo della città che è passato un anno ma che “Diablo vive”. L’essere stato un narcotrafficante per la Diocesi di Roma non ha molto peso visto la messa prevista per le 19 di questa sera e poi come rituale ultimo nessuna ha per il momento impedito il pellegrinaggio sul luogo dell’uccisione con il saluto finale del “presente”. Un commiato lungo e strutturato per ricordare che Fabrizio Piscitelli veniva freddato con un colpo di pistola un anno fa su una panchina di via Lemonia, nel quartiere Tuscolano di Roma.

Tra i presenti tutti ometteranno che non si trattò di un omicidio estivo, non un incidente, ma un vero e proprio regolamento di conti che ha visto eliminare dalla scena criminale della città un uomo che sapeva essere molte cose. Anche troppe. Se per i camerati ed i suoi fedelissimi degli Irriducibili della Curva Nord era “Diabolik”, per la camorra e la famiglia Senese era «la strega» che tra le sue capacità divinatorie aveva il dialogo con pezzi degli apparati di sicurezza.
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«Era ‘na strega perché quando c’erano le guardie che arrivano lui non ci stava mai, quando c’era un pericolo spariva - dice Raimondo, che nei primi anni ’90 venne da Secondigliano per fare i soldi con Gennaro Senese e ora ha ripiegato nel servire ai tavoli di un ristorante di catena della Capitale - non ti dico niente di nuovo se affermo che Piscitelli pensava di fare il furbo con i Senese che lo avevano cresciuto. Come tutti i romani puntava troppo in alto e va bene una volta che ti perdonano ma la seconda volta ti puniscono». Per il nostro confidente Piscitelli infatti avrebbe introdotto per due volte un quantitativo di droga notevole nel mercato partenopeo. La prima volta ascrisse l’invio ad un errore di comunicazione tra batterie criminali e tra grandi patemi fu perdonato, la seconda volta, come si legge anche tra le carte della Procura di Roma cercò di immettere 100 chilogrammi di cocaina nel mercato napoletano, una mossa che gli sarebbe costata cara, sommata al giro di crediti mai restituiti della vendita della droga che, insieme ad Alessandro Telich detto “Tavoletta” e Fabrizio Fabietti, suoi bracci operativi e finanziari, fece confluire a Dubai.

Il caso
La santificazione del narcotrafficante Diabolik: in vendita le sue magliette "per beneficenza"
15/7/2020
La tripla identità di Fabrizio Piscitelli lo portava a giocare su più tavoli: partite pericolose, vinte spesso bluffando e facendo leva su un sistema di potere che le varie inchieste coordinate dalla Procura di Roma hanno via via smantellato. Quando muore, ucciso da un uomo di corporatura robusta, tatuato, vestito da runner con una maglia verde, è orfano della protezione storica di Massimo Carminati e di Michele Senese detto “ ‘o pazzo”: è solo come tutti i capi che la mafia decide di far fuori, non muore da eroe ma muore per leggerezza, per eccesso di sicurezza e di fiducia tra i suoi. È lontano il tempo in cui i Ros in un’informativa scrivevano: “tutti erano concordi nell’affermare che su Ponte Milvio opera una batteria pericolosa con a capo Fabrizio Piscitelli e dalla quale facevano parte soggetti albanesi; che la predetta batteria era al servizio dei napoletani ormai insediatisi a Roma Nord, tra cui i fratelli Esposito facenti capo a Michele Senese”. Fatti e circostanze che col tempo gli si rivolteranno contro, punti di forza e di impatto criminale che diverranno causa della sua tragica fine.

È morto in territorio straniero, Piscitelli, in quel quartiere Tuscolano un tempo gestito dai Casamonica con la supervisione forte dei Senese, una morte che è diventata subito oggetto di culto: dalla veglia in via Amulio dove transitò il gotha della fascisteria romana, tra cui Luigi Ciavardini, fino ai funerali al Divino Amore che divennero l’occasione di una riunione dei capi ultras di tutto il Paese, dalla vendita delle magliette con la sua effige organizzata dalle figlie, passando per la curiosa asta che si è scatenata online per avere il suo santino funebre, arrivando alle celebrazioni organizzate per il primo anniversario della morte. Un culto che nessuno ha il coraggio di interrompere evidentemente perché se dopo un anno dopo la città è percorsa di striscioni che ne ricordano la figura, preparati con tutta calma, fin da ieri sera dagli Ultra Lazio (eredi del disciolto gruppo “Irriducibili” di cui Piscitelli era fondatore e leader) nella sede occupata all’Inail di Via Amulio, un culto che serve da distrattore per mascherare l’esistenza di un modello criminale autoctono nella Capitale che fonde vecchia e nuova fascisteria, criminalità organizzata e stadio.

Gli striscioni, la messa e il saluto romano eventi che abbracciano le plurime identità con cui si presentava il defunto, descritto come tifoso genuino, padre amorevole, amico fedele: una narrazione che in pochi sembrano voler interrompere. Un programma di celebrazioni che al momento sembra non aver nessuno ostacolo, tranne una decina di agenti della Digos che alle prime luci dell’alba hanno svolto un sopralluogo in via Amulio, centrale operativa delle affissioni avvenute in nottata, ma oltre a questa encomiabile azione di controllo territoriale, nessuno ha mosso la minima obiezione. Non le istituzioni locali e nazionali, dalla sindaca Virginia Raggi alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese. E nemmeno la Diocesi di Roma: già lo scorso anno assistette silente alla celebrazione nella Chiesa di Santa Maria Ausiliatrice che si trasformò in un evento con oltre 100 persone che conclusero acclamando il nome di Piscitelli tra cori e sciarpe della Lazio. Un lungo filone, dai tempi bui della Curia che per un’opera di bene fu disposta ad accogliere Renato De Pedis nella cripta di Sant’Apollinare, fino ad ospitare – il 20 agosto di cinque anni fa - i funerali cafonal e mafiosi di Vittorio Casamonica in Piazza San Giovanni Bosco, dove il feretro del vecchio capo clan romano fu tirato da sei cavalli e un elicottero fece dolcemente cadere sulla folla petali di rosa.
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Roma appare così ancora una volta come “una specie di giungla, tiepida, tranquilla, dove ci si può nascondere bene” sopratutto ad agosto, quando la città è vuota e rimane solo l’eco di uno sparo qualsiasi su cui si annidano interrogativi antichi come l’uomo.

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