I fedeli dell’Islam nel nostro Paese sono più di due milioni, ma le amministrazioni guidate dalla destra non autorizzano la costruzione o l’allargamento dei loro cimiteri. E per i parenti dopo il lutto inizia un’odissea

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Fatima era una nonna marocchina di 70 anni, festeggiati a gennaio. Era arrivata in Italia nel 2015, per trascorrere gli ultimi anni della sua vita insieme ai nipoti e al figlio Fouad, con cui abitava in una casa di Monza. La stessa in cui, lo scorso 30 aprile, si è spenta sotto gli occhi della nuora Lubna. «È successo tutto così in fretta», racconta Fouad che, nel tardo pomeriggio di quel giovedì, era impegnato a servire i clienti dietro al bancone della sua macelleria. «Sapevo che non c’era niente da fare. Ma non pensavo che il tempo a nostra disposizione fosse così poco».

Fouad risponde alle domande nel retrobottega del negozio, circondato dagli scaffali ricolmi di specialità musulmane, tra teiere tradizionali e confezioni di harira, la zuppa tipica del Ramadan. Si asciuga le mani sporche di carne sul grembiule, approfitta del tempo che separa l’uscita di un cliente dall’arrivo di un altro per raccontare. «Il coronavirus non c’entra nulla con la sua morte. Ma abbiamo risentito lo stesso di questa emergenza. Avrei voluto riportarla in Marocco, ma le frontiere erano chiuse. E la cremazione non è prevista nel nostro culto. Così, per noi, è iniziato un altro dramma, quello di cercare un cimitero islamico in cui seppellirla».

Sua madre Fatima rientra nei circa 350 musulmani morti in Italia da quando la pandemia è iniziata. Molti dei decessi sono riconducibili al virus ma, a prescindere dalla causa della scomparsa, i parenti di chi se n’è andato hanno affrontato tutti la stessa estenuante ricerca di un luogo dove dare ai defunti l’ultimo saluto.
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Attualmente in Italia i cimiteri islamici sono circa un centinaio. Dall’inizio dell’anno se ne contavano poco meno di 50. Il numero è aumentato con l’inizio dell’emergenza, quando l’Ucoii, l’Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia, ha spinto diverse amministrazioni a concedere un posto nei cimiteri comunali, così da permettere ai fedeli musulmani di aggirare l’impossibilità del rimpatrio delle salme determinato dalla chiusura delle frontiere.

L’aumento resta però irrisorio se si calcola che i cimiteri islamici interessano l’1 per cento dei quasi 8 mila comuni italiani, per una comunità religiosa che, dopo quella cristiana, è la seconda per numero di fedeli (oltre due milioni). E se si pensa che l’utilizzo di questi luoghi è legato al vincolo della residenza, ossia alla possibilità di usufruirne solo se si è registrati in quel comune.

«Quando la signora Fatima è morta, suo figlio mi ha chiamato e mi ha detto: “Per favore dimmi cosa fare con lei, perché io non lo so”. Per fortuna siamo riusciti a portarla a Bergamo», racconta Fouad Selim, responsabile del centro islamico di Monza. Nella sua città, un campo islamico esiste da anni. Ma i 90 metri quadrati concessi in passato non bastano ad accogliere nuove salme. E il sindaco attuale (Dario Allevi, Forza Italia, in giunta con la Lega e Fratelli d’Italia) non lo allarga. «Ci siamo mossi per ottenere altro spazio, il problema è urgente ma non vogliamo forzare la mano. Rischieremmo di vanificare tutti gli sforzi fatti in questi anni per mantenere comunque aperto il dialogo con la giunta», dice Selim.

Lo stesso atteggiamento paziente emerge dalle parole di Abdelwahed, che abita a Gera Lario, in provincia di Como. Rappresentante della comunità islamica di un’area che include anche Sondrio e Lecco, ha vissuto come altri la caccia a un luogo idoneo per seppellire un parente. «È anche colpa nostra se ci siamo fatti trovare impreparati, avremmo dovuto cominciare anni fa a spingere. Invece ci siamo accontentati di ricorrere al rimpatrio, perché i musulmani di prima generazione si sentivano più legati alle terre da cui venivano. Molti hanno stipulato assicurazioni con le banche dei paesi di origine proprio per avere qualcuno che si occupasse della procedura di ritorno».

Ma il discorso cambia per chi, come Abdelwahed, è giovane e ha vissuto tutta la sua esistenza in Italia. «La gran parte dei ragazzi musulmani non ha nemmeno mai fatto visita ai Paesi di cui sono originari, si sente italiana in tutto e per tutto. Quando arriverà il momento, quelle persone immaginano di essere seppellite qui, dove hanno costruito i loro legami più forti». Dopo aver chiesto inutilmente a cinque amministrazioni nella zona la concessione di uno spazio, anche Abdelwahed si è rassegnato a organizzare la sepoltura del suo parente a Bergamo, a circa un’ora e mezza di macchina. «La vedova è qui da pochi mesi, non parla italiano e si è affidata a noi per la gestione del funerale. Ora, per andare a far visita a suo marito, dovrà fare poco meno di 100 chilometri».

Nel quartiere bergamasco di Colognola, è un semplice muro bianco a separare il cimitero islamico da quello comunale. Contornato da una folta siepe che pare voler proteggere le sue lapidi rivolte a Oriente e i tanti nomi incisi nel doppio codice arabo e latino, questo luogo si è trasformato in un punto d’approdo per molte famiglie fuori provincia. Ma non è una novità dovuta all’emergenza. Al momento della sua nascita nel 2008, infatti, l’allora amministrazione di centrosinistra e la comunità islamica locale si accordarono per lasciare da parte il vincolo della residenza, permettendo ogni anno la sepoltura di sette salme di non residenti che avessero però un legame con la città di Bergamo.

«Il bacino di coloro che poteva usufruirne era stato allargato senza fare caso al comune di abitazione, perché molte delle donazioni per finanziare i lavori del cimitero (circa 350mila euro) arrivarono da musulmani fuori provincia», spiega l’assessore ai Servizi civici Giacomo Angeloni che, a causa del suo interesse alla questione è stato ribattezzato dall’opposizione “assessore all’Islam”. «Per noi fissare il limite di sette salme era necessario, non volevamo che il nostro si trasformasse nell’unico luogo di sepoltura della zona. Se risolviamo i problemi di tutti, gli altri sindaci non affronteranno mai la questione».

Lo stesso Angeloni assicura di aver più volte alzato la cornetta per spingere a cambiare idea i primi cittadini (il più delle volte leghisti) che non vogliono andare incontro alle esigenze dei musulmani. «Ho chiesto ai sindaci di rispettare i bisogni di chi ha un culto diverso, in un momento in cui il dramma ha colpito tutti, indistintamente. Ma c’è chi non vuole sentire ragioni. In confidenza, ammettono che la vera ragione del no è politica. La giustificazione ufficiale, però, è che non possono farlo perché non hanno abbastanza spazio nei cimiteri comunali».

A negare la concessione di un settore islamico per motivi di metri quadrati, per esempio, è stato il comune di Fiume Veneto, in provincia di Pordenone, guidato dal 2018 da una lista sostenuta da Lega e Forza Italia. Qui, nei mesi scorsi, un’anziana albanese di nome Myzejen è morta in seguito a un ictus. Tra il decesso e la sepoltura sono passati 19 giorni. Tanto è il tempo che il nipote Klaid ha impiegato a trovare una soluzione: «All’inizio abbiamo chiesto a Udine, ma ci hanno risposto che non accettavano persone fuori provincia. Abbiamo tentato con Marghera, in Veneto. Ma anche lì ci hanno negato l’accesso perché eravamo addirittura fuori regione», spiega Klaid, con la voce che a tratti vacilla, mentre chiede qualche secondo per consultare i fogli su cui ha appuntato le tappe legate alla scomparsa di sua nonna.

«Io non ho voglia di polemizzare, ma nessuno si merita di vivere una angoscia simile solo perché ci tiene a seppellire i cari secondo i precetti del proprio culto. Era intervenuto anche il prefetto di Pordenone per spingere l’amministrazione di Fiume Veneto a creare un reparto speciale. Ma i giorni continuavano a passare. Così ci siamo rassegnati a una sepoltura a Calendasco, in provincia di Piacenza». Un piccolo comune che, stando ai calcoli di Google Maps, dista 340 chilometri dal luogo in cui è morta la signora Myzejen.

Nella mail che l’amministrazione di Fiume Veneto ha mandato all’Ucoii per negare la concessione di un cimitero islamico, si legge che «il sindaco e gli enti territoriali hanno la facoltà di disporre di aree dedicate a defunti professanti un culto diverso da quello cattolico. Trattasi di opportunità che allo stato questo Comune non intende sviluppare». La sindaca Jessica Canton ha però assicurato al telefono che il rifiuto è dovuto alla pura mancanza di spazi: «Nel nostro cimitero comunale non c’erano le condizioni per ricavare una zona abbastanza grande da cedere ai musulmani», dice. «Spero che i musulmani, con la riapertura delle frontiere, tornino a rimpatriare le salme come hanno sempre fatto».

L’auspicio della sindaca tuttavia ignora o finge di ignorare la realtà. In primo luogo perché nel nostro Paese ci sono circa 50 mila italiani di nascita e origine convertiti all’Islam: persone quindi che non hanno alcun posto in cui far “rimpatriare” le salme. In secondo luogo perché c’è tutta la questione della seconda generazione, musulmani di genitori stranieri ma nati e sempre vissuti qui. E anche per chi invece è nato all’estero, ammesso che ci voglia tornare dopo il trapasso, non mancano i problemi: il trasporto nelle terre d’origine può costare fino a 5 mila euro. Per questo, quando le famiglie non possono permetterselo, è la comunità islamica a raccogliere fondi che coprano le spese del viaggio.

Dice il presidente nazionale dell’Ucoii, Yassine Lafram: «La possibilità di avere un cimitero islamico è contemplata dal regolamento della polizia mortuaria, ma le amministrazioni non sono obbligate a darlo». In questo modo, la possibilità o meno di trovare luoghi idonei dipende dagli stessi sindaci che, nella gran parte dei casi, scelgono facendosi guidare dal credo politico o dalla ricerca del consenso a destra. «Chi dice no sostiene che non c’è spazio o che i tempi tecnici siano troppo lunghi. In realtà, la burocrazia è stata semplificata proprio per rispondere all’emergenza. Il problema è che, in mancanza di una legge precisa, la differenza la fanno le singole persone».

L’arbitrarietà a cui è legata la concessione di cimiteri musulmani, insomma, offre molti spunti a cui i primi cittadini possono aggrapparsi per dire no. «Le prime generazioni di islamici pensavano che fosse normale lottare per ottenere diritti che, almeno sulla carta, erano già previsti. Ma noi giovani percepiamo con più lucidità le ingiustizie», dice il consulente legale dell’Ucoii Yassine Othmane. «Il nostro obiettivo è ottenere un cimitero islamico per ogni provincia italiana e mettere fine all’angosciosa ricerca di una tomba che deve affrontare chi è già passato attraverso il lutto di una perdita».