I tamponi positivi sono al minimo eppure da più di un mese gli abitanti di Melbourne sono chiusi in casa con solo due ore di esercizio fisico all’aperto, coprifuoco notturno e divieto di spostamenti. E monta la protesta dei cittadini

Un poliziotto immobilizza un manifestante premendogli un ginocchio sul collo mentre quello è schiacciato a terra; un’immagine diventata ormai tristemente famosa in seguito alla morte di George Floyd a Minneapolis, ma che questa volta non ha avuto luogo negli Stati Uniti bensì domenica scorsa nel centro di Melbourne, Australia, nei pressi del grande mercato all’aperto “Queen Victoria”.

L’uomo immobilizzato a terra è uno dei tanti australiani che da due settimane affollano il centro della capitale dello Stato di Victoria per chiedere la fine delle pesanti misure di distanziamento sociale messe in atto, a partire dal 2 agosto, dal premier Daniel Andrews.
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È da fine giugno, infatti, che il Victoria e in particolare Melbourne, è l’epicentro della seconda ondata di casi di Coronavirus nel Paese che ha portato a contare il picco massimo mai raggiunto in Australia di 723 casi registrati nella giornata del 30 luglio.
Una recrudescenza nel numero di contagiati che però sembra innestarsi in un quadro dell’epidemia tenuto sotto controllo dal governo. Il Paese infatti si attesta fra quelli con il minor tasso di positività dei tamponi (0,1%), insieme a Corea del sud e Uruguay. Ciò significa che, in questi Paesi, prima di trovare un caso positivo bisogna effettuare centinaia, se non migliaia, di test. Anche il numero di casi totali confermati da inizio pandemia, a gennaio, appare - secondo le statistiche del Ministero della Salute - alquanto contenuto e si attesta intorno ai 26,000 con circa 816 decessi.

Numeri che non sembrerebbero giustificare l’iniziativa di Andrews di imporre un secondo lockdown nel proprio Stato a così stretto giro dal primo, imposto su scala nazionale, nei mesi di marzo e aprile. I cittadini del Victoria hanno tuttavia assistito a un nuovo inasprimento delle misure di distanziamento sociale, in particolare nell’area metropolitana di Melbourne: niente riunioni né assembramenti, coprifuoco notturno a partire dalle 9 di sera, un’ora di esercizio fisico al giorno consentito (due a partire dal 13 settembre) da svolgere all’aperto e nel raggio di 5 km dalla propria abitazione, scuole chiuse e lavoro da casa.

Tutte misure che hanno permesso di abbattere drasticamente il numero dei positivi portandoli alla trentina registrati nella giornata di domenica scorsa, ma che pesano sulla popolazione fiaccata dalle restrizioni imposte a così poca distanza dal primo lockdown. A queste, inoltre, si aggiunge il divieto categorico di viaggiare, il cosiddetto travel ban, in vigore da marzo in tutto il Paese, che impedisce a cittadini australiani e residenti permanenti di lasciare lo Stato a patto di non ricevere esenzioni.

«Dopo aver vissuto mesi angoscianti in cui seguivamo da qui quello che succedeva in Italia con la pandemia, a molti sarebbe piaciuto tornare a casa per rivedere le proprie famiglie» racconta all’Espresso Magica Fossati, italiana residente in Australia e giornalista radiofonica presso l’emittente pubblica australiana Radio SBS. «In questo momento dovrei essere in Italia: avevo un biglietto acquistato da molto tempo che è poi stato cancellato dalla compagnia aerea e chiaramente ho escluso di fare questo viaggio perché non avevo motivazioni così serie, grazie al cielo, per poter tornare. Però ci chiediamo tutti come e quando si riuscirà a viaggiare, è un po’ un punto interrogativo».
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Fossati racconta inoltre come, grazie alla sua professione, è entrata in contatto con famiglie che hanno fatto domanda per ricevere l’esenzione: «Non è facile, da quanto si capisce la si ottiene solo se si hanno ragioni forti e documentabili e se si dichiara che si rimarrà all’estero per un lungo periodo di tempo. Ma la difficoltà è anche non sapere bene come rientrare perché in Australia è difficile tornare: ci sono meno voli e c’è un limite settimanale di persone che possono rientrare dall’estero e sono davvero pochissime».

Per ora infatti anche per cittadini e residenti permanenti australiani che si trovano in varie parti del mondo è molto difficile fare ritorno nel proprio Paese a causa dei cosiddetti flight caps, ovvero limiti, imposti dal governo federale, sul numero di passeggeri ospitabili nei voli internazionali diretti in Australia che sono stati prorogati molteplici volte dal governo e rimangono molto bassi (circa 4,000 arrivi a settimana). Secondo il Consiglio dei rappresentanti delle compagnie aeree australiane (BARA), infatti, l’87% dei 30,000 posti disponibili sui voli diretti in Australia nella prima settimana di settembre sono rimasti vuoti.

Un limite questo che, insieme ai costi della quarantena obbligatoria di due settimane una volta rientrati nel Paese, costringe ancora 20,000 australiani a rimanere all’estero, lontani da famiglie, lavoro e affetti e che ha convinto più di 2,000 di essi, bloccati in 40 diversi Stati del mondo, a condividere le proprie storie sul web grazie al sito removethecap.com nato per diffondere le storie dei molti “Aussies” ancora bloccati all’estero.