Gay, lesbiche, transgender, non binari. Soy lo que soy, dell'artista salentino (diretto da Silvia Maggi) è un ritratto di gruppo a tema queer. E lui: «Voglio raccontare la nostra comunità per com'è realmente, senza la patina e gli stereotipi dei media»

Quaranta video-ritratti, da quattro secondi l’uno. Con protagonisti: gay, lesbiche, transgender, non binari. La musica – un misto ambient di Sudamerica e tropici – è di Populous, dj e produttore di elettronica salentino famoso in tutto il mondo, in collaborazione col duo messicano Sotomayor. E il titolo parla da sé: Soy lo que soy – sono ciò che sono. «Volevamo rappresentare la comunità LGBTQ+ nella maniera più vera possibile: quando la gente ci vede da fuori lo fa sempre attraverso immagini molto patinate; ma noi non siamo solo quelli lì», racconta all’Espresso l’artista, che all’anagrafe si chiama Andrea Mangia e ha cinque dischi alle spalle con sonorità sintetiche latine, orientale, comunque sempre più contaminate. Come del resto questo pezzo, contenuto nel suo ultimo lavoro W e che è un inno a «essere ciò che si è senza paura, schemi predefiniti e remore verso ciò che impone l’assetto sociale».



L’idea gli è venuta dopo aver conosciuto Silvia Maggi, documentarista italiana di stanza a Berlino, nonché membro della scena queer della città. È lei che ha diretto il videoclip, che non a caso «ha un taglio, sì, musicale, ma appunto anche molto documentaristico». E gli piace che i soggetti inquadrati – tra cui lui stesso e la regista – si mostrino fieri, guardino dritto in camera, sorridano. Ancora: «L’obiettivo è dimostrare che nella nostra comunità c’è gente normalissima, che fa i lavori più disparati. Quindi abbiamo chiamato amici (e ce n’è per tutti: sex worker, pole dancer, attori, grafici) italiani e berlinesi, per riprenderli nel loro privato, nelle camere e nei quartieri dove vivono, senza cercare location accattivanti o altro. Né trucchi, né fronzoli: così, come siamo nel quotidiano».

Secondo Mangia, i media restituirebbero un racconto superficiale e stereotipato degli LGBTQ+. «E basta accendere un telegiornale a caso per vedere l’indifferenza che traspare nei nostri confronti. Nessuno si interessa davvero, salvo quando succedono tragedie», sospira. Poi denuncia: «L’Italia è un Paese bigotto, patriarcale, in cui quelli come noi vengono visti come dei freak. Ma credo sia dovuto a un misto di ignoranza e menefreghismo, non proprio a della cattiveria; altrimenti, la mancanza di una legge sull’omotransfobia, come ce la spieghiamo?». Anche per questa ostilità Populous si era detto «spaventato» al momento del lancio del video, perché per una volta erano proprio lui e i suoi amici a metterci la faccia. Una scelta, questa, coerente con lo spirito di W (che sta per woman), in cui l’artista salentino ha mostrato – in maniera, per lui, nuova e più intima – la propria identità queer, per esempio attraverso collaborazioni solo con donne da tutto il mondo, nell’intento di combattere il maschilismo dell’industria discografica italiana, «che è evidente». Non fosse che, «quando l’ho annunciato su Facebook mi sono preso centinaia di insulti da gente che nemmeno sapeva chi fossi: per dire».

In ogni caso – «a parte qualche solito, becero commento» – il video e l’album alla fine sono stati accolti relativamente bene, in Italia come in Germania e in Sudamerica. E un certo ottimismo, soprattutto verso la sensibilità dei giovanissimi, traspare. Certo la strada è ancora lunga, perché «qui da noi c’è grandissima scarsità di artisti queer e transgender. Ma finché etichette e manager non investiranno davvero su questa gente, sarà difficile emergere». Quindi è una battaglia che si combatte da dentro? «Sì, nel senso che occorre iniziare a proporre personaggi non standardizzati dal punto di vista sessuale. L'interesse di alcuni autori c'è già. Poi penso pure alla nuova serie di Luca Guadagnino (We are who we are, in uscita su Sky Atlantic il prossimo 9 ottobre, nda): spero serva a mostrare che “esiste anche qualcos’altro”. È arrivato il momento di spiegare al grande pubblico, con contenuti commerciali e accessibili, che la vita non è solo uomo-donna. Non lo è mai stato, tantomeno nel 2020».