Le domande, gli imprevisti, il pericolo di annoiare. È la presenza del pubblico a rendere unica una presentazione dal vivo. Un coinvolgimento che nessuno streaming potrà mai eguagliare

Schermata-2020-09-25-alle-15-16-39-png
Per chi scrive saggistica – più spesso che per i romanzieri – gli incontri pubblici possono prendere la forma di lezioni, talk, dibattiti, conferenze; e diventano un’attività parallela e indipendente rispetto all’eventuale testo, film, spettacolo che si sta presentando. Negli ultimi due anni ho fatto oltre quaranta incontri per parlare dei miei libri: molti nelle scuole superiori e nelle università, vere e proprie lezioni da professore ospite.
Il 2020 ha ovviamente cambiato regole e prospettive, e ci siamo trovati con un pezzo mancante.

Un pezzo vitale.

Per correre ai ripari sono proliferati gli eventi online, le presentazioni in streaming. Per editori e librai è stato un modo per continuare a promuovere i libri; per gli autori è stato il tentativo di restare in contatto con i propri lettori. Lo ammetto: per me è stato un incubo. 

Ho capito che preferisco parlare in presenza, e che stare dietro a uno schermo non mi diverte, anzi mi logora. L’incontro online non è affatto la stessa cosa e non lo dico per fare l’elegia di un fantomatico o romantico calore umano. C’è una questione strettamente tecnica. Il medium, si sa, determina il messaggio, e mentre dal vivo si sta parlando di fronte a qualcuno che ci ascolta lì, in quel posto preciso e in un momento preciso, la mediazione della webcam irrigidisce gli incontri rendendoli un po’ tutti uguali.

Il video insomma impone a qualsiasi discorso la freddezza della conferenza o la sciatteria della videochiamata. Questo può andar bene in università, con un pubblico attento e preparato, ma non sempre. Mi spiego: di fronte a un auditorio non specializzato, generalista (che poi sono la maggior parte dei lettori veri) ti accorgi subito se si annoiano, se non ti seguono, o se hai imboccato una strada senza uscita. Sei pronto per accorgertene e aggiustare subito il tiro.

Dal vivo le parole le costruisci sul momento, insieme a quel pubblico preciso. Parlando di fronte a uno schermo, invece, questo riscontro manca, e gli ascoltatori diventano una massa opaca. Allora le strade sono due: o preparare un discorso con le battute al millimetro, come in televisione, oppure ci si ritrova a improvvisare davanti a un muro. Insomma, la tecnologia non è mai invisibile o neutra. La webcam è una mediazione invasiva.

Parlare in pubblico è un rituale: rivendico la necessità di vestirmi in certo modo, di viaggiare, di prepararmi psicologicamente a quel momento. Da casa non riesce con la stessa concentrazione: fare lezione nel mio salotto, con i “congiunti” nella stanza accanto, è alienante. Anche le presunte domande online, pure se in diretta, restano inerti: non senti chi e perché te lo sta chiedendo.

Dal vivo se una certa domanda la fa un ragazzo di liceo o una signora ti dà anche una prospettiva su come rispondere. Dal vivo ci sono aspetti stimolanti, creativi, che ti fanno venire in mente cose a cui non avevi pensato prima. Anzi, spesso le idee per nuovi libri mi sono venute proprio rispondendo alle domande durante una presentazione. Insomma, almeno per me: lunga vita ai festival. Certo: distanziati, in sicurezza. Ma dal vivo tutte le volte che si può.

Riccardo Falcinelli, visual designer, sarà protagonista di un incontro dal titolo “Figure: come si guarda un’immagine” (il 4 ottobre, ore 11,30, Auditorium)