
Agatha Mary Clarissa Miller (Christie era il cognome del marito), creatrice di due tra i più noti personaggi della letteratura mondiale – “Hercule Poirot”, nato 100 anni fa, e “Miss Marple”, nata 90 anni fa – non è stata la pacata, dolce signora che suggerisce l’immaginario costruito attorno a lei. È stata una donna indipendente, ribelle, fortissima ma anche soggetta a un’oscurità, un lato cupo e doloroso, che non è facile indovinare immaginandola battere, prolifica, sui tasti della sua macchina da scrivere.
Le foto di Agatha bambina la ritraggono intensa, seria. Colpiscono i suoi occhi. Gli stessi occhi che conserverà fino alle ultime foto, come se lì dentro, col passare degli anni, non fosse mai cambiato nulla. Nata in una famiglia della middle-class, terza e ultima di tre fratelli, Agatha fu educata in casa. Imparò a leggere a quattro anni, era molto brava in aritmetica – del resto, la creazione di un romanzo giallo è, oltre che una prova letteraria, anche una elaborata creazione matematica – ed ebbe da subito un legame molto forte con sua madre.

Amava leggere, parlare con gli animali e con i suoi amici immaginari (secondo Andrew Norman, uno dei suoi biografi, Agatha percepiva, soprattutto di notte, la presenza di un uomo oscuro accanto a sé, che chiamava il Bandito), e presto iniziò a scrivere. Sapeva suonare il piano e sarebbe potuta diventare una pianista, ma, si dice, aveva il terrore di suonare davanti a un pubblico. La scrittura, forse, almeno nell’immaginario comune, è qualcosa di più intimo e solitario, che non impone il contatto con gli altri, ma solo con la pagina scritta.
Il sogno di una famiglia felice s’infranse per la prima volta con la morte del padre, che lasciò la famiglia in preda a forti problemi economici. Agatha aveva undici anni, e la sua infanzia – disse poi – finì bruscamente quel giorno. Il trauma della perdita e ciò che ne seguì legò ancora di più Agatha a sua madre. Dopo aver passato un periodo in Francia, Agatha tornò a casa e poi, con la madre, si trasferì per tre mesi in Egitto. Lì fece il suo debutto in società. Poi tornò in patria.
Intanto scriveva racconti, che puntualmente venivano rifiutati. Scrisse anche un romanzo: rifiutato da ben sei editori. Ma gli interessi di Agatha erano tantissimi. Le piaceva andare alle feste, a caccia, cavalcare, pattinare, ebbe diversi fidanzati con cui poi però non si sposò. Questa ragazza dagli occhi grandi non assomigliava per niente alla Miss Marple che avrebbe creato.
Nel 1912 conobbe Archibald Christie, un ufficiale dell’esercito. Si sposarono due anni dopo, alla vigilia di Natale, in segreto, senza un soldo, e la guerra li divise. Archibald fu distaccato in Francia, e Agatha lavorò come infermiera della Croce Rossa a Torquay. Fu lì che acquisì le conoscenze sui veleni che avrebbe usato nei suoi libri. In quegli anni – precisamente nel 1916 – scrisse “Poirot e il mistero di Styles Court”, per una scommessa con sua sorella che non la credeva capace di scrivere un giallo. È qui che nasce uno tra i più famosi detective della storia. Hercule, ex funzionario della polizia belga in pensione, nasce da uno spunto reale. Durante la prima guerra mondiale, infatti, era facile incontrare in Inghilterra rifugiati belgi. Agatha, grazie al suo lavoro, ne aveva incontrati molti.
Anche questo romanzo fu prima rifiutato, poi acquistato da una casa editrice che, però, la obbligò a firmare un contratto anche per altri romanzi. Intanto, con la fine della guerra, Archibald era tornato in patria, e i due si trasferirono a Londra. Nel 1919 nacque la loro unica figlia. Nel 1920, finalmente, Agatha vide il suo primo romanzo pubblicato. Seguirono altri romanzi che cominciarono a darle notorietà, e molti viaggi con suo marito (senza la figlia) in giro per il mondo. Agatha era una donna forte e indipendente, una tra le prime donne inglesi a imparare a surfare in piedi.
La vita poteva essere piena e bella, ma nell’aprile del 1926 la sua amata madre morì. Agatha cadde in una forte depressione. Nello stesso anno, suo marito le chiese il divorzio. Si era innamorato di un’altra donna: Nancy Neele. Il 3 dicembre, dopo una lite con Archibald, Agatha scomparve. La sua Morris Cowley fu ritrovata il mattino. Di lei, nessuna traccia.
Cosa successe dopo è uno dei più grandi enigmi della vita di Agatha Christie. Mentre il pubblico chiedeva notizie della famosa scrittrice di gialli, oltre mille agenti di polizia muniti di cani e schiere di volontari la cercavano – venne dragato il fiume e fu impiegato anche un aereo nelle ricerche –, il New York Times dedicava alla scomparsa la sua prima pagina e Sir Arthur Conan Doyle forniva a una medium un suo guanto perché lo illuminasse sul destino della grande scrittrice, Christie sembrava evaporata nel nulla. Fu ritrovata undici giorni dopo a Harrogate, famosa località termale a quasi 400 chilometri da casa, in un albergo: si era registrata come Teresa Neele – il cognome dell’amante di suo marito. Cosa le era successo in quei dieci giorni? Come aveva fatto ad arrivare fin lì?
Sostenne di avere un’amnesia, tanto che, quando Archibald la raggiunse in albergo, non mostrò di riconoscerlo. Le teorie sulla scomparsa di Agatha si moltiplicarono. La morte della madre, Agatha lasciata sola a dismettere la sua casa, il tradimento di Archie, il troppo lavoro… era stata una vera amnesia causata dalla depressione, una trovata pubblicitaria per sostenere il suo libro appena uscito, “L’assassinio di Roger Ackroyd”, o un tentativo di far incolpare il marito della sua morte (Archibald, infatti, fu interrogato dalla polizia)?
Agatha non raccontò mai nulla di quei giorni, nemmeno nella sua autobiografia. Però, non stava bene per davvero. Rimase in uno stato di profonda depressione per molto tempo, sottoponendosi a periodi di riabilitazione e cure psichiatriche. Ma non smise mai di scrivere. Più tardi, felicemente, si risposò. Il resto è storia. La storia di una delle più famose scrittrici del mondo, donna sfuggente, geniale, segnata da immensi dolori e grandi rinascite. In uno dei suoi libri più riusciti e rivoluzionari – proprio “L’assassinio di Roger Ackroyd” – Christie, scrittrice di gialli “scorretti”, cioè non assoggettati alle classiche regole del genere ma sempre sfuggenti e cangianti come lei, mette in scena, attraverso una struttura apparentemente piana e regolare, un gioco di specchi mirabolante, una specie di dialogo a tu per tu con il lettore.
Non posso dire di più, per non svelare il finale. Posso dire, però, che in questo romanzo Agatha Christie arriva al picco più alto della coincidenza tra scrittore e personaggio: creando un libro che si regge tutto non sul dire il falso, non sullo sviare, ma sul dire sempre la verità, semplicemente omettendo ciò che non vuol dire. La reticente Agatha Christie si rivela, senza rivelarsi, nella reticenza del suo narratore. Come dice Sciascia, che questa scrittrice e in particolare quest’opera ama, qui Christie confida al lettore «il suo identificarsi con l’assassino». E, come conclude il colpevole di Roger Ackroyd: «Quanto vorrei che Hercule Poirot non si fosse ritirato dalla professione per venire a coltivare le sue zucche proprio qui».