La terza vita di Matteo Renzi, guastatore di Conte
È stato il rottamatore del 40 per cento, poi il capo di Italia Viva. Ora punta a intercettare lo scontento del Pd andando all'attacco del Presidente del Consiglio
Se non siamo a «il mio regno per un rimpasto», poco ci manca. Era partito come uno «Speedy Gonzales», Matteo Renzi, solo pochi anni fa: è finito, nella terza stagione di sé stesso, a fare il Riccardo III. R III, come l’antieroe shakespeariano che chiese (invano, lui) di scambiare il proprio regno per un cavallo e che, annoiato dalla pace, imbastì «trame e pericolosi intrighi» fino a conquistare un trono che non gli era destinato, ma solo per breve tempo.
Trovate somiglianze? Pronto a tutto pur di scambiare il proprio presente da 2 per cento con un futuro almeno un po’ più divertente, Matteo Renzi s’è adesso rimesso al centro della scena - con la benedizione indiretta di Massimo D’Alema che, occhio fino del cultore della materia, gli ha dato addirittura dell’«impopolare» - e ha animato, persino nei giorni di bollino rosso della pandemia, una pre-crisi con tutti i crismi, tra proclami, minacce, proposte, e-news, sventolante ritiro di ministre e sottosegretari.
Una danza senza esclusione di colpi e di ipotesi, degna dell’inverno del nostro scontento. Pure stavolta a R III le poltrone non interessano naturalmente, e i rimpasti nemmeno: anche nel gennaio 2014, un minuto prima di far fuori Enrico Letta e occupare il suo posto a Palazzo Chigi ebbe a respingere sdegnoso i rimpasti come «roba da prima repubblica. Che noia. Vi prego», salvo poi farne svariati una volta premier; quanto al connubio contenuti-poltrone, è fatale in politica, mai accaduto che le due cose si scindessero, come giustamente segnalato nei giorni scorsi da Pier Ferdinando Casini.
Rottamatore del 40,8 per cento alle Europee del 2014, quando era capo del Pd e del governo, Re di Italia viva nel 2019, il partito-Leopolda che ha costruito al solo scopo di non restare nell’ombra di Zingaretti, neanche adesso Renzi-Riccardo III rinuncia quindi ai contenuti e alle slide, come si è visto nella presentazione di Ciao, il contro-piano alla prima versione del Recovery Plan estratto giusto tra Natale e Capodanno.
Come nelle precedenti incarnazioni, anche la sua terza stagione renziana ha un momento preciso di rivelazione: stavolta, ironia della sorte, la data coincide con il settimo anniversario della vittoria alle primarie Pd che segnarono una tappa della sua brusca ascesa a fine 2013, e il luogo è il Senato, che Renzi da presidente del consiglio tentò invano di abolire.
Lo scorso 9 dicembre a Palazzo Madama, nel corso del dibattito pre-Consiglio europeo, Renzi ha infatti ufficialmente debuttato come principale avversario interno di Giuseppe Conte, ergendosi a coagulo di ogni scontento della maggioranza (ma anche di un pezzo di opposizione), addirittura a campione del parlamentarismo contro la smania di affidarsi ai tecnici, tipica de presidente del Consiglio: «Ritengo che il governo non possa essere sostituito da una task force, il parlamento non possa essere sostituito da una diretta facebook» - disse l’uomo che governava coi tweet - e quindi «di fronte ai 200 miliardi da spendere del Next generation Ue, o il Parlamento fa un dibattito vero, oppure perdiamo la dignità delle istituzioni», tuonò quel giorno tra gli applausi di tutti i tifosi delle due camere - da Casini a Calderoli.
Ora è chiaro il paradosso del Renzi III: lui il Parlamento lo porta in palmo di mano, a differenza del Renzi I, che trattava come un orpello inutile tutto ciò che rallentasse la sua azione di governo. Giusto al Senato, quando a febbraio 2014 arrivò per chiedere il voto al proprio governo chiarì, tenendo le mani in tasca: «Non ho l’età per essere eletto qua dentro», «vorrei essere l’ultimo presidente del Consiglio a chiedere a quest’aula la fiducia». Ma poi, come si sa, avendo perso il referendum costituzionale, al bicameralismo è affezionato stile vittima della sindrome di Stoccolma.
Ormai, sulla soglia dei 46 anni, eletto per l’appunto al Senato, Renzi è nostalgico di quasi tutto ciò che prima detestava: del dibattito parlamentare s’è detto, ma arriva persino a essere e proclamarsi d’accordo con Luigi Zanda, al quale solo un anno fa, in epoca di fondazione di Italia viva, a proposito dei conti in rosso del Pd, diceva piacevolezze del tipo: «Non siamo riusciti a rimediare a tutti i danni che avete fatto prima, ma solo a una parte significativa». Nell’era dell’RIII è del resto tutto un: «ma pensa», «ma chi se l’immaginava», «ma chi l’avrebbe mai detto». Riesce persino, Renzi, a rimpiangere l’assenza dei sindacati dalla scena: quando da premier si faceva un vanto di non aver tempo per incontrarli e arrivava ad accusare la Cgil, in combutta con la lega salviniana, di «perdere tempo a trovare scuse per scioperare. Scioperi contro di noi, scioperi politici».
Nostalgico quindi dei sindacati, dei corpi intermedi, RIII pare addirittura nostalgico del Pd. Delle correnti del Pd. Del suo ruolo nel Pd. Nei suoi discorsi parlamentari non c’è ormai volta in cui, in un modo o nell’altro, non arrivi il momento in cui si rivolge ai «colleghi», «ex colleghi», «amici» democratici per ricordare di quella o di quell’altra volta e in generale di quando il «voi» era un «noi».
C’è da dire che Renzi ha forse la condanna al vagheggiamento, la condanna di non stare mai dove vorrebbe, di non fare mai il capo del partito che dirige: da capo del Pd voleva fare il partito della Leopolda, adesso che governa il partito della Leopolda, vorrebbe fare il capo del Pd. D’altra parte, anche dalle parti del Nazareno paiono capirlo molto più ora, rispetto a prima. A inizio settimana, giusto tra i dem, i favorevoli a una crisi lampo di marca renziana erano molti di più, rispetto a coloro che si dicevano favorevoli al pacifico rimpastino di stampo zingarettiano. I fautori della Blitzkrieg, più dei sostenitori delle morbidezze da «né staticità né rottura» proclamate da Zingaretti via Facebook.
L’assenza di un capo del Pd, o meglio l’assenza di un piglio da capo nel Pd, ha del resto fatto scomparire dal novero delle cose vive e semoventi l’attività politica stessa del segretario dem. Nessuno, tra i pur molti interlocutori incrociati in questi giorni, che abbia mai detto: «Ho parlato con Zingaretti». Ad avere il dono della parola, nel partito, paiono piuttosto il sempre attivo capodelegazione Dario Franceschini o, più di tutti, Goffredo Bettini. «Ho parlato con Bettini»: ecco, era piuttosto questo il refrain, il bandolo delle mediazioni condotte con Palazzo Chigi per l’intera settimana.
Proprio al Pd, questa estate, Renzi aveva lanciato l’amo per fondare la nuova stagione, quella che adesso sta faticosamente cercando di affermare, tra uno stallo e l’altro. Era il 22 luglio, sempre al Senato, e dopo aver celebrato le proprie geniali mosse politiche ma anche l’europeismo del governo, tanto diverso dall’anti-europeismo dei gialloverdi che l’avevano preceduto, si rivolse per la prima volta in Aula, da ex, al partito che aveva guidato, per lanciare la proposta: «Mi rivolgo a voi perché la partita inizia adesso: saremo capaci di assumere la leadership, per cui l’assistenzialismo diventi crescita, la capacità di scommettere sul populismo diventi voglia di scommettere sulla politica?». Ecco, assumere la leadership. Proprio ciò che segna l’abbraccio con gli ex e l’estrema contrapposizione a Conte. Dal quale tutto sembra assomigliarlo, e tutto lo divide.
Nemmeno nel momento in cui fu tra le levatrici del governo Conte II, infatti, Renzi sembra essere mai stato in sintonia con il presidente del Consiglio. Tanto questi è capace di sopravvivere a forza di troncare, sopire e tentennare, tanto quello è capace di tenersi in vita bruciando le tappe: punti di forza e di debolezza insieme, ma destinati comunque a non incontrarsi mai. Non nel momento in cui nacque il Conte II. Ma neanche nelle tante mediazioni tentate in questi giorni.
Non bisogna mai dimenticare, del resto, che l’uomo portato a Palazzo Chigi da Luigi Di Maio (leader pentastellato prudentissimo, in questa fase, pressoché assente) resta espressione di un partito che per anni è cresciuto sull’anti-renzismo, e che proprio il potente portavoce di Conte, Rocco Casalino, tutt’ora cordialmente detestato dai renziani, è stato una delle macchine comunicative di quella stagione del «pd-meno-elle».
Per converso, neanche si può dimenticare quanto Renzi abbia da subito tentato di terremotare il governo Conte: anche prima dell’arrivo della pandemia, a febbraio scorso, scaldava i fuochi sotto un eventuale governo Draghi.
Dopo aver ricoperto di complimenti l’avvocato del popolo. «Giuseppe Conte è il presidente del Consiglio più incapace che la storia di questo paese ricordi», tuonava ai tempi del Russiagate, avendolo già definito «un aspirante metereologo, vice dei suoi vice, portavoce del suo portavoce, cerimoniere senza cerimonia, che non riesce a mettere bocca su Libia, Venezuela, Trump. Va alle riunioni, ma ha scambiato le nomine con le nomination», e via complimentando.
Con queste premesse, che scoppiasse la sintonia pareva già difficile dall’inizio. Tanto più adesso perché R III tra le sue richieste ha messo il ricorso al Mes, il cui no è uno dei punti fondanti di questa stagione grillina, un paletto d’origine pressoché insuperabile. D’altra parte, persino Riccardo III ha avuto bisogno a un certo punto di un colpo di fortuna, per costruire la sua scalata.