È l’idea della libertà regolata nelle istituzioni a essere ferita  nel cuore dell’Occidente. Da un’ideologia autoritaria diffusa ovunque 

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«Il dono della libertà». Così nel suo preambolo la Costituzione degli Stati Uniti definisce il patrimonio civile e morale del Paese, bene comune che va salvaguardato, insieme con la giustizia e con la tranquillità sociale, dalle istituzioni e da «noi, il popolo». È ciò che comunemente chiamiamo democrazia, il sistema di garanzie reciproche che ci scambiamo ogni giorno l’un l’altro vivendo, mentre nelle nostre differenze di opinione, nelle diverse aspirazioni, nella libertà di critica, nelle piccole e nelle grandi infedeltà ai principii, tuttavia ci riconosciamo tutti sotto lo stesso cielo repubblicano, abitato da diritti e doveri.

Questi valori, difesi e riconquistati con la sconfitta delle dittature, nell’organizzazione quotidiana dello Stato contemporaneo hanno dato forma a un meccanismo democratico che si basa sulla contendibilità del pubblico potere, dunque sulla possibilità dell’alternanza al comando, quindi sul pluralismo, sul libero gioco elettorale, e sulle garanzie dello Stato di diritto, sul controllo di legittimità da parte delle Corti costituzionali, sul controllo di legalità della magistratura, sul controllo politico da parte della libera informazione. L’insieme di queste procedure e di questi principii dà vita a un processo continuo che non è mai concluso, perché la democrazia non è una sovrastruttura ideologica ma una costruzione umana - come tale fragile, e bisognosa di cura -, cioè «non è uno stato, ma è un atto», come ha ricordato la nuova vicepresidente Kamala Harris.
Intervista
«Per guarire le istituzioni malate ora la destra deve rinnegare e denunciare Donald Trump»
19/1/2021

È esattamente questa concezione della democrazia che viene ferita dalla sovversione trumpista: e per questo il significato della profanazione ribelle del parlamento americano va oltre i confini di quel Paese, e ci riguarda tutti. Cos’altro dobbiamo ancora aspettare per capire che i nuovi Anni Venti cominciano con la democrazia sotto attacco, dopo che gli Anni Dieci l’hanno svalutata fino a svuotarla come un albero cavo per poi rinsecchirla di ogni valore nella coscienza dei cittadini istigati alla rivolta?

Non si tratta di un’insorgenza popolare, ma di una vera e propria rivoluzione conservatrice, la più classica ribellione delle élites, che va in scena in forma inedita. Il populismo nazionalista, moderna espressione dell’estremismo di destra, ha chiamato a raccolta tutta la rabbia, la frustrazione, l’esclusione, la rivincita sociale, il risentimento del Paese, non per emancipare questi istinti in un progetto di cambiamento, anche radicale, ma per mantenerli allo stato incandescente, in modo da appiccare un incendio permanente al sistema politico e istituzionale. Fino a coinvolgere nel fuoco populista il vero bersaglio, la democrazia. La morsa congiunta delle tre crisi - economica, sanitaria, del lavoro - viene infatti presentata come la prova del fallimento del meccanismo democratico, anzi come il suo certificato di morte. E come una congiura per espropriare il popolo da parte dei gruppi dirigenti globalizzati che sono i privilegiati della democrazia - appannaggio esclusivo dei garantiti - nell’interesse dell’alleanza dei nuovi poteri transnazionali che oggi domina il mondo.

Il nazionalismo diventa così la dottrina di difesa dell’egoismo in rivolta, il leader si trasforma in vendicatore degli oppressi, e non importa se è un miliardario: più dello spirito di classe conta il riconoscimento “etologico” di una specie ribelle, nell’odio anti-establishment, in una rivincita sociale e politica sul Palazzo. Perché la salvezza può venire solo da fuori, da un nuovo, sconosciuto contro-Stato che ha l’antipolitica come moneta corrente, guidata da un outsider che non vuole governare il sistema per cambiarlo, ma conquistarlo per rivoluzionarlo. Se l’outsider vince, la rivoluzione nazional-populista si insedia dentro la superficie della vecchia forma democratica, mutandone profondamente la sostanza, e quindi la natura. Una democrazia illiberale, che nega se stessa mentre trasforma la potestà regolare del governo nella sproporzione arbitraria del dominio.

Qui siamo. L’alt a Trump con la proposta democratica di impeachment, con la dissociazione crescente dei repubblicani moderati, con la condanna dei leader mondiali, riguarda certo il comportamento criminale di un presidente pro tempore a Washington, ma denuncia nello stesso tempo a tutto il mondo l’accerchiamento della nuova destra estrema alla civiltà democratica, inseguendo un nuovo potere. Come chiamarlo? Sappiamo che sta operando una metamorfosi del concetto di sovranità in supremazia, che si sente “destinato” ad esercitare il comando, che si considera sciolto dagli obblighi fissati dalla legge, che impone il suo diritto supremo ad affermarsi senza il condizionamento della Costituzione, delle elezioni, del consenso popolare. Siamo fuori dalla concezione democratica dell’autorità, e davanti al tipico caso del potere con l’incoscienza del limite, disposto a rispondere solo a se stesso, un potere che la teoria politica definisce come autoritario e assoluto.

Nel cuore dei sistemi liberali, è dunque rispuntato un neo-autoritarismo antidemocratico, un assolutismo populista. Siamo in un congegno titanico, com’è evidente: il leader contro tutti, col carisma che fonda una sacralità ideologica pagana e sfonda le categorie tradizionali del discorso pubblico pretendendo l’invulnerabilità del Capo, entrando in una dimensione meta-politica che tollera ogni abuso e giustifica la dismisura come pratica abituale, assolvendo qualsiasi comportamento improprio e ogni violazione delle regole con l’eccezionalità di una leadership non riducibile a norma, anomalia vivente che si giustifica mentre si realizza.

Questo esercizio inedito del primato politico comporta necessariamente una dissociazione tra il potere e lo Stato. Il leader viene da un altrove, e sta altrove, abita le istituzioni ma si sente alieno. È una sorta di programmatica svestizione istituzionale, un rifiuto dei tradizionali paramenti sacri della democrazia, scartati come simboli castali per afferrare soltanto lo scettro, bastone del comando. La democrazia anzi viene svilita a pratica burocratica d’altri tempi, con tutti quei sistemi di controllo che impediscono alla leadership di dispiegare la sua potenza salvifica. Un impaccio.

Così quando si arriva alla fuoruscita finale dal sistema, con il testa-coda clamoroso del presidente che denuncia la corruzione della democrazia americana con elezioni truccate, il suo popolo è già pronto. Educato a maledire la democrazia e a credere ai complotti, fa facilmente due più due, accettando la divulgazione dell’ultima credenza, che chiude il cerchio magico dell’alterità al sistema: la democrazia è un complotto, la prova è proprio nella pretesa di espellere il Capo dalla Casa Bianca e di ridurre l’anomalia trumpiana a una parentesi. Solo una truffa è infatti in grado di deviare la sorte della nazione, perché nella nuova mistica rivoluzionaria la sconfitta è un tabù impronunciabile che può nascere soltanto da una macchinazione contro il popolo, un esproprio di destino: nel quale il leader risulta in ogni caso innocente, vittima ma mai responsabile, oltraggiato quand’è ferito, comunque inviolabile nel presepio immobile del carisma perfetto.

Gli elementi della metamorfosi post-democratica sono pronti: un leader disposto a tutto, una cultura di estrema destra sovversiva, un linguaggio populista che sfrutta la crisi, un popolo che crede nell’antipolitica come vendetta e risarcimento, il sentimento di un’ingiustizia perenne da parte dello Stato, la convinzione un credito permanente con il sistema, un moderno credo che instaura l’anti-Stato.

È l’abuso del dono originario della libertà, pervertito in un eccesso di autorità, in una nuova concezione della cosa pubblica in cui una minoranza può negare la volontà popolare della maggioranza perché si sente investita dal destino generale, dalla vera volontà della nazione che va oltre la politica, le elezioni, le Costituzioni, e sconfina in un anti-istituzionale rovesciamento del sacro, una nuova fede sacrilega. D’altra parte proprio l’America un secolo fa dettò la profezia a Alexis de Tocqueville: «Voler arrestare la democrazia sembrerà allora voler lottare contro Dio».